Dal 1991 al 2022 lo Stato ha speso oltre 86 milioni di euro per indennizzare vittime di errori giudiziari
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Enzo TortoraDaniele BarillàMaurizio BovaSaverio De SarioGiuseppe GiulianaGiuseppe GulottaGiuseppe LastellaAngelo MassaroDomenico MorroneBeniamino Zuncheddu
Hanno trascorso anni, in alcuni casi decenni, in carcere da innocenti. Le loro vite sono state travolte da accuse infondate, processi viziati e indagini frettolose. I casi di Enzo Tortora, Giuseppe Gulotta, Beniamino Zuncheddu e molti altri raccontano un sistema che ha fallito e che ha poi cercato di rimediare solo parzialmente con indennizzi milionari.
Secondo i dati pubblicati da errorigiudiziari.com, dal 1991 al 2022 l’Italia ha versato oltre 86 milioni di euro per risarcire persone incarcerate ingiustamente. Ma il vero costo è umano, difficile da quantificare: anni rubati, famiglie distrutte, reputazioni spezzate. Questo articolo ripercorre alcuni dei casi più emblematici della malagiustizia italiana.
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Enzo Tortora
Enzo Tortora, celebre conduttore televisivo, fu arrestato nel 1983 con l'accusa di traffico di droga e appartenenza alla camorra. Le accuse si basavano esclusivamente sulle dichiarazioni di alcuni pentiti, rivelatesi poi false. Dopo sette mesi di carcere e un processo durato quattro anni, fu assolto con formula piena nel 1987. Tortora tornò in televisione, ma la sua salute era gravemente compromessa. Morì il 18 maggio 1988 per un tumore al polmone, diventando simbolo della lotta contro gli abusi giudiziari. Il suo caso è uno dei più eclatanti della storia giudiziaria italiana e ha avuto un ruolo centrale nel dibattito sulla responsabilità dei magistrati.
Il "Caso Tortora" non fu solo un clamoroso errore giudiziario, ma divenne un motore di cambiamento per il sistema legale italiano. La drammatica vicenda del conduttore televisivo Enzo Tortora diede un'imponente spinta al referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati. L'esito fu schiacciante: l'80,2% dei votanti si espresse per l'abrogazione degli articoli del codice di procedura civile che escludevano tale responsabilità. Questa forte volontà popolare portò, appena un mese prima della scomparsa di Tortora, all'approvazione della legge Vassalli (legge 13 aprile 1988 n. 117), votata da PCI, PSI e DC. Questa normativa introdusse il "Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati". Tuttavia, la legge stabilì che la responsabilità di eventuali errori nell'operato giudiziario ricadesse primariamente sullo Stato, il quale solo successivamente poteva rivalersi sul magistrato, e per un importo limitato (un terzo dell'annualità dello stipendio).
Un aspetto cruciale della legge Vassalli fu il divieto di applicazione retroattiva. Questa clausola significò che nessuna azione legale potè essere intrapresa contro i magistrati che indagarono e giudicarono in primo grado il caso Enzo Tortora, e nessun risarcimento potè essere versato ai suoi eredi. Una famiglia spezzata dal dolore e un padre che lottò strenuamente per dimostrare la sua estraneità ai fatti, senza mai vedere una piena giustizia risarcitoria.
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Daniela Barillà
La vita dell'imprenditore Daniele Barillà fu stravolta il 13 febbraio 1992 a causa di un tragico scambio di persona. La sua Fiat Tipo amaranto era identica a quella di un narcotrafficante monitorato dai carabinieri del Ros di Genova durante un'operazione antidroga. Mentre Barillà si recava dalla fidanzata, i militari inseguivano un carico di cocaina su una Fiat Uno scortata da una Tipo simile; quella dei veri malviventi si dileguò e le forze dell'ordine fermarono l'auto di Barillà vicino alla Uno contenente 50 kg di droga. Nonostante fosse un rispettabile uomo d'affari con quindici dipendenti, Barillà fu condannato a 15 anni di reclusione, ingiustamente etichettato come figura di spicco della mala milanese. Questa condanna gli costò l'azienda, la fidanzata e la vita del padre, morto di crepacuore. La sua drammatica storia è stata poi raccontata in un libro e in una fiction.
Dopo sette anni e mezzo di ingiusta detenzione, la verità iniziò a emergere. Il caso fu riaperto nel 1997 in seguito all'arresto di un tenente colonnello del Ros, il cui team aveva arrestato Barillà. L'ufficiale era accusato di metodi illeciti, incluso l'uso di droga sequestrata per gestire informatori. Barillà fu scarcerato il 12 luglio 1999 e definitivamente assolto il 17 luglio 2000 "per non aver commesso il fatto". Nel 2001 richiese un indennizzo, inizialmente negato. Tuttavia, nel 2007 gli fu riconosciuto un maxi-risarcimento di circa tre milioni di euro, ponendo un tardivo, seppur parziale, rimedio all'enorme ingiustizia subita.
Rivincita giudiziaria per Maurizio Bova: ergastolo annullato dopo quasi 20 anni di carcere. Un’odissea giudiziaria lunga quasi due decenni si è conclusa per Maurizio Bova, originario di Somma Vesuviana. Condannato all’ergastolo nel 1997 per l’omicidio del boss Antonio Ferrara e il tentato omicidio di Domenico Ferrara, un crimine avvenuto nel 1994, Bova ha trascorso 19 anni, sette mesi e 20 giorni dietro le sbarre. La svolta è arrivata grazie alla confessione di un collaboratore di giustizia che, inizialmente accusato in concorso con Bova, si è successivamente autoaccusato dei reati, scagionando di fatto Bova.
Un iter processuale tortuoso ha caratterizzato questa vicenda. Dalla condanna iniziale della Corte d'Assise d'Appello di Napoli nel 1997, si è passati all'inammissibilità della revisione del processo da parte della Corte d'Appello di Roma nel 2011. La Corte di Cassazione, nel 2012, ha annullato quest'ultima decisione, aprendo la strada all'assoluzione, pronunciata dalla Corte d'Appello di Perugia nel 2014. A coronamento di questa lunga battaglia per la giustizia, la Corte d'Appello di Perugia ha riconosciuto a Maurizio Bova un indennizzo di 2 milioni e 149mila euro a titolo di riparazione per l'errore giudiziario subito. Una somma che, seppur cospicua, non potrà cancellare quasi vent'anni di vita trascorsi ingiustamente in prigione.
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Saverio De Sario
Tra i casi di errori giudiziari che hanno segnato la cronaca italiana, spicca la drammatica vicenda di Saverio De Sario, autotrasportatore sardo la cui vita fu sconvolta da accuse infamanti. Trasferitosi a Brescia con la moglie e i due figli, De Sario venne accusato di abusi sessuali sui bambini, in seguito a una denuncia presentata dalla consorte. Le testimonianze dei minori, raccolte in tribunale, sembrarono inizialmente confermare le accuse, portando a una condanna a undici anni di reclusione per l'uomo. Tuttavia, il corso della giustizia prese una piega inaspettata nel settembre del 2015.
I figli di De Sario, in un momento di chiarezza e coraggio, ritrattarono le accuse iniziali, ammettendo che quanto dichiarato in precedenza non corrispondeva al vero e di essere stati convinti dalla madre a rendere quelle dichiarazioni. Questa clamorosa ammissione diede il via a un processo di revisione. Al termine di un lungo e sofferto iter, la Corte d’Appello di Perugia cancellò la condanna a carico di De Sario. L'uomo fu assolto con la formula "il fatto non sussiste", e i giudici ne disposero l'immediata scarcerazione. Per riparare al danno subito, il legale di De Sario aveva richiesto un indennizzo di 1,5 milioni di euro. La Corte d’Appello di Perugia ha invece stabilito un risarcimento di 400mila euro: oltre 250mila euro per i 1.068 giorni di ingiusta detenzione, a cui si aggiunse un 40% in più per le "infamanti accuse" subite. Una storia emblematica di come la verità possa emergere, seppur con un prezzo altissimo per chi la attende.
Un altro capitolo doloroso nella storia degli errori giudiziari italiani riguarda Giuseppe Giuliana, bracciante agricolo di Canicattì (Agrigento), che ha vissuto l'incubo di essere accusato e condannato per un omicidio mai commesso. Giuliana, che si è sempre dichiarato innocente, fu accusato di aver ucciso un imprenditore a Serradifalco (Caltanissetta). La sua odissea giudiziaria iniziò il 4 luglio 1997, quando la Corte d'Assise di Caltanissetta lo giudicò colpevole in primo grado. La sentenza venne poi confermata dalla Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta, che lo condannò a 19 anni di reclusione per omicidio, detenzione e porto d'armi da fuoco, e rapina aggravata. Anche la Cassazione, nel 2000, confermò il verdetto, sigillando la condanna dell'uomo.
Giuseppe Giuliana trascorse 5 anni e 29 giorni in carcere, a cui si aggiunsero 2 anni, 5 mesi e 4 giorni con l'obbligo di dimora e il divieto di espatrio. La svolta arrivò il 6 dicembre 2014, quando il processo di revisione si concluse con la sentenza di assoluzione pronunciata dalla Corte d'Assise d'Appello di Catania. Un sospiro di sollievo dopo anni di ingiusta detenzione. Per il danno morale ed esistenziale subito, Giuseppe Giuliana presentò una richiesta di indennizzo, che la Corte d'Appello di Catania accolse il 15 giugno 2015. Lo Stato gli riconobbe un indennizzo di 500mila euro, a parziale compensazione delle sofferenze patite.
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Giuseppe Gulotta
La storia di Giuseppe Gulotta rappresenta un altro dei più drammatici e noti errori giudiziari nella storia italiana. A soli 18 anni, questo giovane muratore fu arrestato e condannato per l'omicidio di due carabinieri, avvenuto nel 1976 all'interno della caserma di Alcamo Marina. Un'accusa infamante che lo avrebbe tenuto dietro le sbarre per ben 22 anni. Gulotta trascorse decenni a lottare per la sua innocenza, una battaglia legale durata 36 anni e culminata in nove processi. La svolta decisiva arrivò nel 2007, quando un ex carabiniere rivelò la verità: la confessione di Gulotta era stata estorta con violenze e torture fisiche, e i veri responsabili del delitto erano altri. La Corte d'Appello di Reggio Calabria certificò come la confessione fosse avvenuta sotto tortura, riconoscendo l'innocenza di Gulotta.
Nel 2012, la stessa Corte d'Appello di Reggio Calabria assolse definitivamente Gulotta con la formula "per non aver commesso il fatto". Dopo aver trascorso 22 anni in carcere e 36 anni a lottare per dimostrare la propria innocenza, Giuseppe Gulotta fu finalmente riabilitato. Lo Stato gli riconobbe un risarcimento di 6,5 milioni di euro, la cifra più alta mai sborsata in Italia per riparare a un errore giudiziario. Nonostante la somma cospicua, l'avvocato Baldassare Lauria, uno dei legali di Gulotta, sottolineò come la Corte si fosse limitata a liquidare i giorni di reclusione, senza considerare i danni morali ed esistenziali causati dalla distruzione di una vita.
La lista degli errori giudiziari si arricchisce della storia di Giuseppe Lastella, un barese che trascorse undici anni dietro le sbarre accusato ingiustamente di omicidio. Il 2 aprile 1990, un pregiudicato, prima di morire in ospedale a seguito di un agguato sulla Salerno-Reggio Calabria, fece un'accusa che si rivelò fatale per Lastella: tra i responsabili del suo ferimento, rantolò, c'era il contitolare di un autosalone che, secondo gli inquirenti, era proprio lui. Inizialmente, la Corte d'Assise di Cosenza decise per l'assoluzione di Lastella. Tuttavia, la Corte d'Assise d'Appello di Catanzaro ribaltò la sentenza, condannandolo a ben 30 anni di carcere. Nonostante la condanna, gli avvocati di Lastella non si arresero.
Il 20 dicembre 2001, forti di nuovi elementi di prova e inedite testimonianze, chiesero la revisione del processo alla Corte d'Assise d'Appello di Catanzaro, ma la richiesta venne respinta. Un nuovo ricorso in Cassazione si rivelò decisivo: la Suprema Corte accolse la richiesta, disponendo un nuovo processo a Salerno. Il 16 novembre 2004, arrivò finalmente la sentenza di assoluzione per Giuseppe Lastella. Ma la sua odissea giudiziaria non era ancora terminata. La Procura generale impugnò la sentenza in Cassazione, ma questa volta la Suprema Corte rigettò il ricorso, stabilendo una volta per tutte l'innocenza di Lastella. Solo nel 2012, dopo anni di attesa, Lastella ricevette una prima somma di circa 600mila euro come indennizzo, integrata successivamente fino a raggiungere un importo definitivo di 1,5 milioni di euro. Una cifra che, seppur elevata, non potrà mai risarcire pienamente gli undici anni di vita trascorsi ingiustamente in prigione e il profondo trauma di un errore giudiziario.
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Angelo Massaro
La storia di Angelo Massaro è l'ennesimo esempio di come un errore giudiziario possa stravolgere una vita, in questo caso a causa di una sola consonante mal interpretata. Angelo Massaro trascorse 21 anni in carcere per un crimine mai commesso, condannato a 30 anni di reclusione per un omicidio a cui era totalmente estraneo. Il suo calvario iniziò il 15 maggio 1996. All'atto dell'arresto, Massaro era in casa con la moglie e i suoi due bambini piccoli, uno di due anni e mezzo e l'altro di appena 45 giorni. L'accusa: aver ucciso e fatto sparire un suo amico, scomparso qualche giorno prima.
La chiave dell'accusa si basava su un'intercettazione telefonica. Massaro, in una conversazione con la moglie, mentre trainava un bobcat per un lavoro edile, usò il termine dialettale "muers" per indicare lo strumento che stava trasportando, ovvero un "peso morto". Gli inquirenti, però, trascrissero l'intercettazione erroneamente, interpretando "muers" come "muert", ovvero "morto". Questa errata trascrizione gli costò una condanna a 30 anni di reclusione nel 1997. Ci vollero vent'anni perché la verità venisse a galla. Solo nel 2017, dopo la revisione del processo, Massaro fu finalmente dichiarato innocente e scarcerato. La sua incredibile odissea umana è stata raccontata nel docu-film "Peso Morto", realizzato dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, fondatori di errorigiudiziari.com, e dal regista Francesco Del Grosso, un'opera che mette in luce le conseguenze devastanti di un errore giudiziario tanto assurdo quanto tragico.
Il caso di Domenico Morrone, pescatore incensurato di Taranto, rappresenta un altro drammatico esempio di errore giudiziario che ha segnato profondamente la vita di un innocente. Il 30 gennaio 1991, due fratelli di 15 e 17 anni furono uccisi a colpi di pistola davanti alla scuola media “Maria Grazia Deledda” di Taranto. Gli investigatori arrestarono Morrone, all'epoca 27enne, accusandolo di duplice omicidio, detenzione e porto illegale di arma da fuoco e spari in luogo pubblico. Morrone si dichiarò immediatamente innocente, sostenendo con forza di trovarsi a riparare l'acquaio nell'appartamento di vicini al momento del delitto.
Tuttavia, la sua versione non venne creduta: i coniugi e la madre di Morrone furono addirittura condannati per falsa testimonianza. Per Domenico, l'ingiustizia si tradusse nella perdita del lavoro, della fidanzata e nella povertà assoluta della madre anziana. Nonostante un alibi supportato da più testimoni, fu condannato a 21 anni di reclusione. Morrone trascorse 15 anni in carcere da innocente. La svolta arrivò solo grazie a un processo di revisione, quando due collaboratori di giustizia rivelarono la verità: i due giovani fratelli erano stati uccisi dopo aver compiuto uno scippo a una donna, e l'autore dei delitti era un pregiudicato già detenuto per altri reati. Il 22 aprile 2006, Morrone fu finalmente assolto "per non aver commesso il fatto". Per il calvario subito, gli avvocati di Morrone riuscirono a ottenere un indennizzo per errore giudiziario di 4,5 milioni di euro, sebbene i legali ne avessero richiesti dodici.
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Beniamino Zuncheddu
La vicenda di Beniamino Zuncheddu, ex pastore sardo, è entrata nella storia giudiziaria italiana come il più grave errore riconosciuto per durata della detenzione. Per quasi 33 anni, Zuncheddu ha vissuto l'incubo di una condanna all'ergastolo per la strage di Sinnai, in Sardegna, avvenuta nel 1991, in cui furono uccisi tre pastori. L'accusa si basò sulla testimonianza dell'unico superstite, il quale indicò Zuncheddu come colpevole. Tuttavia, come emerso nel processo di revisione, quella testimonianza fu inquinata: un poliziotto, Mario Uda, aveva preventivamente mostrato al testimone una foto di Zuncheddu, indicandolo già come responsabile. Un fatto che ha dimostrato la totale inconsistenza del castello accusatorio e la condanna di un innocente.
Nonostante la condanna all'ergastolo nel 1991, la tenacia di un giovane avvocato sardo, Mauro Trogu, e dell'allora procuratrice Francesca Nanni, che insieme firmarono la richiesta di revisione, ha permesso di riaprire il caso. Le intercettazioni disposte durante il nuovo processo hanno provato l'innocenza di Beniamino. Nel gennaio 2024, la Corte d'Appello di Roma ha finalmente assolto Beniamino Zuncheddu. Dopo quasi 33 anni di ingiusta detenzione, Zuncheddu è stato riabilitato, grazie anche all'impegno di figure come Irene Testa, garante dei detenuti della Sardegna. L'avvocato Mauro Trogu sta ora predisponendo la richiesta di indennizzo da parte dello Stato. Come spiegato da Trogu, il calcolo del risarcimento non sarà meramente aritmetico, ma dovrà considerare la distruzione dei rapporti umani, familiari e affettivi, la perdita della capacità reddituale e la profonda sofferenza fisica e psichica causata da un'ingiusta e prolungata detenzione. Beniamino attende ora la piena giustizia anche economica.