Per l’avvocato Caiazza l'unico colpevole per il delitto di Garlasco rischia di essere trattato peggio di Enzo Tortora. Mentre la malagiustizia presenta un conto salatissimo, tra casi in aumento e risarcimenti milionari
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I processi, la semilibertà e la nuova inchiestaLa distinzione tra ingiusta detenzione ed errore giudiziarioL’eventuale riparazione per Stasi Non solo Stasi: quanto costa allo Stato la giustizia che sbaglia
Il delitto di Garlasco, avvenuto il 13 agosto 2007, ha oggi un colpevole riconosciuto dalla giustizia italiana: Alberto Stasi è stato condannato in via definitiva per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, con la sentenza del 12 dicembre 2015 della Corte di Cassazione. La condanna a 16 anni di reclusione è giunta al termine di un lungo e complesso iter giudiziario.
Il verdetto definitivo è arrivato dopo cinque gradi di giudizio complessivi: Alberto Stasi fu inizialmente assolto sia in primo grado nel 2009 sia in appello nel 2011; nel 2013 la Cassazione annullò l’assoluzione e dispose un nuovo processo. Nel secondo appello del 2014 fu condannato a 24 anni per omicidio volontario, e la Cassazione confermò la sentenza l’anno successivo; la pena fu ridotta a 16 anni di detenzione grazie al rito abbreviato.
Da gennaio 2015 è detenuto e, a maggio 2025, ha scontato circa dieci anni di carcere. Ha ottenuto l’accesso al regime di semilibertà a partire dall’11 aprile 2025, con primo giorno effettivo fuori dal carcere il 28 aprile. Prevista dall’articolo 48 dell’Ordinamento Penitenziario, la semilibertà consente al detenuto di trascorrere parte della giornata all’esterno dell’istituto per svolgere attività lavorative o formative, utili al reinserimento nella società. Nel caso di Stasi, ciò significa che ogni giorno esce dal carcere di Bollate e vi fa ritorno la sera, seguendo un programma autorizzato dal magistrato di sorveglianza. Si tratta di una misura che non modifica la condanna definitiva, ma segna l’ingresso in una nuova fase della detenzione.
Il caso, che sembrava chiuso, ha conosciuto un nuovo scossone con la riapertura delle indagini da parte della Procura di Pavia, che ha disposto accertamenti genetici su nuove tracce rinvenute sulla scena del crimine: l'unico nuovo indagato di questo filone è per il momento Andrea Sempio, amico di Marco Poggi, fratello della vittima. Anche se è già noto che di errori nelle indagini ne furono fatti e diversi, l’ipotesi di una revisione del processo e di un eventuale scagionamento di Stasi resta, ancora tutta da verificare. Il suo stesso difensore, l'avvocato Antonio De Rensis, prende con le pinze uno scenario di questo genere: "Vogliamo osservare questa indagine - ha detto - perché proprio il rispetto che abbiamo per chi sta indagando ci fa mettere l'ipotesi di un'eventuale revisione in secondo piano".
L’avvocato Giandomenico Caiazza, già presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, auspica che gli estremi per aprire l’iter di revisione siano solidi: "Naturalmente nessuno di noi lo sa con certezza, ma mi pare difficile che un procuratore della Repubblica si svegli una mattina e decida di riaprire il caso Garlasco senza avere qualcosa in mano. Per far ripartire un’indagine su una sentenza definitiva servono elementi nuovi, concreti, anche se magari non ancora utilizzabili processualmente. Mi auguro che la Procura si sia mossa con basi solide".
Allo stesso modo, anche i calcoli sull’eventuale riparazione che lo Stato potrebbe riconoscergli restano ipotesi teoriche, subordinate a un’eventuale revisione e assoluzione. Stasi si candida a diventare un nuovo Enzo Tortora insomma? Non secondo l’avvocato Caiazza, che fu tra i difensori proprio del conduttore televisivo: “Il parallelismo regge fino a un certo punto: Tortora fu assolto in appello, la giustizia raddrizzò la rotta prima della condanna definitiva. Se Stasi venisse assolto dopo aver scontato una pena, sarebbe qualcosa di molto più grave: lì sì che parleremmo di un vero errore giudiziario, di quelli che sconfessano completamente lo Stato. Un caso simbolo, sì, ma forse perfino più inquietante."
In casi come quello di Alberto Stasi è essenziale distinguere tra errore giudiziario e ingiusta detenzione. Si tratta di due distinti istituti riparatori previsti dal sistema penale italiano per chi ha subito una privazione della libertà poi rivelatasi infondata. Entrambi comportano una forma di indennizzo da parte dello Stato, ma si applicano a situazioni diverse e presentano caratteristiche giuridiche ed economiche molto differenti.
Per ottenere l’indennizzo, la persona coinvolta deve presentare una domanda di riparazione alla Corte d’Appello competente, entro due anni dalla sentenza definitiva di proscioglimento ottenuta in revisione. L’istanza deve contenere la descrizione dei pregiudizi subiti — materiali e morali — e indicare la durata della detenzione. Sarà poi la Corte a esaminare l’entità del danno, valutando non solo gli aspetti oggettivi, come i giorni di detenzione, ma anche le conseguenze personali, familiari, lavorative o scolastiche, nonché la sofferenza fisica e psichica provocata dalla reclusione. Come sottolineano i magistrati, non si può applicare un calcolo standard: ogni caso va valutato nella sua interezza umana, considerando l’impatto complessivo dell’errore giudiziario sulla vita dell’innocente.
Nel caso di Alberto Stasi, se dovesse essere assolto in sede di revisione dopo aver scontato una condanna definitiva, si configurerebbe proprio un errore giudiziario e lo Stato italiano - dopo aver affrontato i costi per una doppia indagine e un lungo e tortuoso percorso giudiziario - potrebbe essere chiamato a corrispondergli una somma importante, forse milionaria, risultante dall’addizione di più voci:
Per un totale di sei milioni e mezzo di euro. "Una cifra teoricamente del tutto plausibile - commenta l’avvocato Caiazza. Il risarcimento per errore giudiziario non ha limiti: si valuta tutto, dalla durata della detenzione ai danni morali, psicologici, reputazionali. Stasi era un ragazzo di 24 anni quando fu condannato, oggi ne ha 41: ha passato in carcere quasi tutta la sua vita adulta. E anche se venisse assolto, l’ombra del sospetto di essere un assassino lo seguirà per sempre. Nessuno dovrebbe stupirsi se l’ammontare del risarcimento fosse di quell’ordine."
È stato allora un errore riaprire le indagini dopo quasi 18 anni dal delitto di Chiara Poggi? Secondo Caiazza: "La cosa che non può funzionare e che fa saltare tutto, è essere arrivati alla condanna definitiva di Stasi dopo due precedenti assoluzioni. È qui che la giustizia è entrata in contraddizione con sé stessa. Se non fosse mai stato individuato un colpevole, si potrebbe comprendere la volontà di riaprire le indagini per non lasciare impunito un delitto. Ma quando un imputato è già stato assolto due volte e poi condannato, e oggi si parla di riaprire il caso, vuol dire che una delle due verità giudiziarie – o forse tutte – è totalmente sbagliata. E allora non si può più parlare di fisiologia dell’errore, ma di un sistema che si smentisce da solo. È la giustizia che sconfessa sé stessa, e lo fa nel modo più grave, compromettendo la credibilità delle sue decisioni."
Il caso di Alberto Stasi, con una possibile richiesta di risarcimento fino a 6,5 milioni di euro, rappresenta solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che grava in modo crescente sui conti pubblici italiani. Secondo i dati raccolti dal sito errorigiudiziari.com, dal 1991 al 31 dicembre 2024 si sono registrati 31.949 casi complessivi di ingiuste detenzioni ed errori giudiziari, per un esborso complessivo che sfiora il miliardo di euro in indennizzi. In media, lo Stato ha speso oltre 29 milioni di euro all’anno per riparare decisioni giudiziarie rivelatesi infondate.
La stragrande maggioranza dei casi - 31.727 - riguarda ingiuste detenzioni, ovvero persone arrestate o trattenute in custodia cautelare e poi risultate innocenti. I veri e propri errori giudiziari, ossia condanne definitive annullate in sede di revisione, sono stati 222 fino al 2022, con una media di quasi sette all’anno. Nonostante siano numericamente inferiori, il loro peso economico è notevole: oltre 86 milioni di euro di indennizzi, per una media annua di circa 2,7 milioni di euro. In termini individuali, significa che ogni singolo errore giudiziario costa allo Stato, in media, circa 385mila euro. Una cifra che in molti casi viene ampiamente superata, ma che in altri non viene nemmeno sfiorata.
È il caso del pastore sardo Beniamino Zuncheddu, condannato all’ergastolo nel 1991 per un triplice omicidio a Sinnai e assolto nel 2024, dopo oltre 32 anni di carcere. Il suo è stato definito da molti come l’errore giudiziario più grave nella storia italiana. Nonostante ciò, ha ricevuto finora solo 30mila euro per le condizioni detentive inadeguate durante undici anni di reclusione, pari a circa otto euro al giorno. La richiesta di risarcimento per l’intera ingiusta detenzione è ancora pendente, e il suo caso mette in luce le profonde disfunzioni del sistema risarcitorio italiano, spesso lento, disomogeneo e incapace di restituire alle vittime nemmeno un riconoscimento simbolico proporzionato all’ingiustizia subita.
Un’analisi della Corte dei Conti sul triennio 2017-2019 conferma quanto il fenomeno pesi sulle finanze pubbliche: in quel periodo sono state emesse oltre 2.900 ordinanze di risarcimento, per un totale di 138,6 milioni di euro. Ogni anno vengono riconosciuti in media 900-1.000 casi di ingiusta detenzione e una ventina di errori giudiziari, con una spesa che ha toccato i 48,7 milioni nel 2019, in aumento del 27% rispetto agli anni precedenti. La sproporzione tra i numeri e i costi è significativa: le ingiuste detenzioni rappresentano l’89% dei casi, con indennizzi medi tra 35mila e 45mila euro, mentre gli errori giudiziari, pur costituendo solo l’11%, assorbono il 43% delle risorse, con risarcimenti che spesso superano il milione di euro.
A livello territoriale, emergono forti disparità nei criteri applicati: nel 2018 Catanzaro ha speso 10,4 milioni di euro, Perugia ha liquidato 13,6 milioni per appena sette ordinanze, e Reggio Calabria ha superato i 9,8 milioni nel 2019. Gli importi giornalieri riconosciuti variano da 117 a oltre 1.600 euro al giorno, a conferma di una mancanza di uniformità tra le diverse Corti d’Appello.
Il fenomeno è ormai una silenziosa emergenza contabile: ogni giorno, in media, due o tre persone ottengono il riconoscimento di una privazione illegittima della libertà, mentre gli errori giudiziari più gravi restano bombe a orologeria pronte a esplodere con richieste risarcitorie milionarie. Come dimostrano i casi di Stasi e Zuncheddu, l’assenza di parametri certi e condivisi rende il sistema imprevedibile e fragile.
Alla fine il conto più salato lo paga la fiducia: quella dei cittadini che, smarriti e impotenti, si chiedono come sia possibile finire in galera da innocenti. Perché quando lo Stato sbaglia nel fare giustizia, non c’è risarcimento che basti a rimettere insieme la credibilità che si è persa.