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Asili nido, Istat: meno del 30% degli under 3 trova posto

L'Italia è sotto la media europea per la frequenza del nido, secondo i dati dell'anno educativo 2021/2022. Il 49,1% delle strutture ha bimbi in lista d'attesa

Asili nido, Istat: meno del 30% degli under 3 trova posto - foto 1
-afp

Nell'anno educativo 2021/2022, sebbene risulti evidente ancora l'impatto della pandemia sulla frequenza del nido, sono numerose le richieste di iscrizione non accolte per carenza di posti: il 63% dei nidi pubblici e il 40,7% dei privati non hanno dato risposta a inizio anno a tutte le domande pervenute.

Soprattutto al Sud è stata più avvertita la pressione sui servizi da parte delle famiglie e le barriere all'accesso hanno lasciato bambini in lista d'attesa in oltre due terzi delle unità di offerta pubbliche e in quasi la metà di quelle private. Lo certifica l'Istat nel Report sui servizi per la prima infanzia. Dunque è del 49,1% la quota di nidi con bimbi in lista d'attesa, mentre meno del 30% degli under 3 trova posto.

Asili nido, Istat: meno del 30% degli under 3 trova posto - foto 2
Tgcom24

Istat: Italia sotto la media europea per la frequenza del nido

 In Italia la frequenza di un servizio educativo per la prima infanzia risulta inferiore alla media europea: nel 2021 i bambini che frequentano una struttura educativa risultano pari al 33,4% dei residenti di 0-2 anni (contro il 37,9% della media Ue). Fonte Istat.

 

La Francia e la Spagna sono ben al di sopra del 50% e altri Paesi, come l'Olanda e la Danimarca, si attestano al 74,2% e al 69,1% rispettivamente. La percentuale italiana comprende peraltro una quota (quasi il 5% dei bambini di 0-2 anni) di bambini iscritti alla scuola di infanzia come anticipatari, quindi inseriti in strutture per bambini da 3 a 5 anni senza gli adattamenti previsti ad esempio nelle sezioni primavera. Pertanto, sono meno del 30% i bambini al di sotto dei 3 anni che trovano collocazione nei servizi educativi specifici per la prima infanzia.

 

 

Istat: in parziale ripresa l'offerta di nidi dopo la pandemia

 Nell'anno educativo 2021/2022, dopo il calo dei posti disponibili registrato durante la pandemia, si ha un parziale recupero dei servizi più strutturati, ovvero i nidi d'infanzia (l'80,6% dell'offerta complessiva) e le sezioni primavera. Queste ultime coprono il 12,7% dei posti e accolgono bambini da 24 a 36 mesi in sezioni di nido che sono situate generalmente presso le scuole d'infanzia.

 

Nei nidi (incluse le sezioni primavera) sono offerti circa 1.700 posti in più rispetto al 2020/2021, recuperando quasi completamente il livello del 2019. Invece i servizi integrativi per la prima infanzia (nidi in contesto domiciliare, spazi gioco, centri per bambini e genitori) subiscono un ulteriore calo di 2mila posti e arrivano a coprire il rimanente 6,7% dell'offerta. Complessivamente, l'offerta resta sostanzialmente stabile rispetto al precedente anno: 13.518 servizi attivi e 350.307 posti autorizzati al funzionamento (-0,1%).

 

 

La percentuale di copertura dei posti rispetto ai residenti tra 0 e 2 anni di età raggiunge il 28%, con un leggero incremento (0,8%) rispetto al 2020/21, dovuto alla contrazione delle nascite e alla conseguente riduzione dei potenziali beneficiari del servizio. Il target del 33% da raggiungere entro il 2010 (come definito dal Consiglio Europeo di Barcellona nel 2002) è così gradualmente vicino, ma resta decisamente lontano il nuovo obiettivo europeo del 45% di bambini frequentanti servizi educativi di qualità entro il 2030. A livello nazionale, il parametro del 33% di copertura dei posti nei nidi rispetto ai bambini residenti è stato fissato come Livello Essenziale delle Prestazioni (LEP) da garantire a livello territoriale entro il 2027 (Legge finanziaria per il 2022 n. 234/2021). 

 

Istat: spesa Comuni di 1,5 miliardi per servizi infanzia

 Una quota rilevante delle risorse destinate al funzionamento dei nidi e degli altri servizi socio-educativi per la prima infanzia vengono gestite a livello locale dai Comuni e dalle forme associative tra Comuni limitrofi. Infatti, i Comuni sono titolari del 34% delle unità di offerta, in cui si trova il 48,8% della disponibilità complessiva di posti. Il rimanente 66% delle strutture e il 51,2% dei posti è di titolarità privata, di cui una parte in convenzione con i Comuni. I dati sono sempre Istat.

 

La spesa impegnata dai Comuni nel 2021 per i servizi all'infanzia ammonta a un miliardo 569 milioni di euro (+16,9% rispetto al 2020) di cui il 16,7% rimborsata dalle rette pagate dalle famiglie (263 milioni di euro). Al netto della compartecipazione degli utenti, la spesa a carico dei Comuni ha recuperato completamente il calo del 2020 (+11,4%) e si attesta leggermente al di sopra del 2019 (1,3 miliardi di euro).

 

 

L'ammontare delle rette pagate dagli utenti, seppure in aumento del 55,4%, si attesta leggermente al di sotto dell'ultimo dato precedente la pandemia, confermando un utilizzo delle strutture da parte delle famiglie, nel corso del 2021, che resta inferiore rispetto al 2019. Il numero di bambini iscritti nei servizi educativi comunali, privati convenzionati o che ricevono contributi da parte dei Comuni, ridotto del 10,5% nel corso del 2020 (quasi 21mila in meno), nel 2021 recupera quasi 14.000 unità e si attesta su oltre 190.000 iscritti (il 15,2% dei residenti fra 0 e 2 anni).

 

Ai divari registrati nella dotazione dell'offerta si accompagnano grandi disparità anche nella quota di bambini che usufruiscono dell'offerta pubblica (dal 32,1% della Provincia Autonoma di Trento si arriva al 4,2% della Campania) e nelle risorse utilizzate dai Comuni a sostegno del sistema educativo per la prima infanzia: la spesa per bambino residente passa da oltre 2.600 euro dei Comuni capoluogo del Centro-nord a 255 euro dei Comuni non capoluogo del Sud. La media pro-capite della spesa per i nidi e per gli altri servizi per la prima infanzia tiene conto del fatto che non tutti i Comuni sostengono spese per le strutture, comunali o in convenzione, o erogano contributi alle famiglie per integrare le rette.

 

A livello nazionale sono il 59,6% i Comuni che garantiscono un'offerta sul territorio, quota che raggiunge l'84,2% al Nord-est e si riduce al 40% nelle Isole. Le condizioni di svantaggio economico delle famiglie nella maggior parte dei casi non comportano la priorità nell'accesso al nido pubblico, salvo i casi di grave disagio socio-economico certificato dai servizi sociali. Le condizioni economiche, tuttavia, possono avere un ruolo importante nella definizione delle rette a carico delle famiglie. Per quanto riguarda l'importo delle rette pagate dalle famiglie, si registra una grande variabilità. In media, nel 2021 i Comuni hanno ricevuto dalle famiglie 1.719 euro per bambino iscritto nelle strutture comunali.

 

Istat: bimbi in nido sono di famiglie più istruite e ricche

 Persistono gli squilibri nel profilo socio-economico delle famiglie che utilizzano il nido. I bambini che lo frequentano hanno più spesso entrambi i genitori occupati, con un maggiore livello di istruzione e con un reddito più alto rispetto ai bambini che non frequentano. Il costo elevato delle rette, insieme alle barriere all'accesso dovute alla scarsità di posti, rappresentano ancora un ostacolo per molte famiglie, nonostante i contributi introdotti dallo Stato e da diverse Regioni. Così l'Istat nel Report sui servizi per la prima infanzia.

 

Nel 2021 il reddito medio equivalente delle famiglie che iscrivono i bambini al nido è 19.800 euro, contro i 16.100 euro di quelle che non lo utilizzano. Il rischio di povertà è tra le condizioni che limitano l'utilizzo del nido, creando una forbice di circa 10 punti percentuali rispetto ai nuclei che non vivono la stessa condizione sociale: solo il 17,9% i bambini di 0-2 anni a rischio di povertà è iscritto al nido, contro il 27,5% dei loro coetanei.

 

I criteri di accesso al nido pubblico, che privilegiano le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano, operano una selezione all'ingresso che tende a escludere le famiglie monoreddito, tendenzialmente meno abbienti e meno inclini a sostenere l'ammontare della retta nei nidi privati. La condizione lavorativa della madre è la discriminante maggiore della frequenza del nido. Infatti, i bambini con la madre lavoratrice frequentano nel 34,2% dei casi, contro il 12,9% dei bambini la cui madre non lavora.

 

Anche un più alto titolo di studio dei genitori garantisce ai bambini maggiori opportunità di accesso al nido: si passa dal 36,9% di frequenza nelle famiglie con almeno un genitore laureato (o con titolo superiore) al 16% per famiglie con al massimo il diploma di scuola secondaria superiore. Dal punto di vista socio-economico la distanza fra le famiglie che utilizzano il nido e quelle che non lo utilizzano sembra non attenuarsi, al contrario i divari risultano più accentuati nel 2021 rispetto al 2017.
 

 

 

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