Parla il genitore della 17enne trascinata sott’acqua da una cima impigliata nell’elica: "Era lì per tradurre, non per fare manovre"
"Anna non doveva trovarsi lì. Voglio la verità, mia figlia non doveva fare nessuna manovra. Per una barca di quelle dimensioni, che porta in giro i turisti, ci voleva più personale".
È il grido di dolore e rabbia di Umberto Chiti, padre della diciassettenne morta durante una manovra d’ormeggio a bordo del catamarano Calita, nella darsena di Sant’Elena a Venezia. Era il suo primo giorno di lavoro, e secondo il padre non avrebbe mai dovuto trovarsi a prua, senza salvagente, a gestire una cima in un’operazione tanto delicata quanto pericolosa.
"Era stata assunta per fare da interprete, parlava bene inglese e anche russo e ucraino, come la madre. Non doveva fare il marinaio", racconta. "Su una barca di oltre dieci metri erano in due: lei e lo skipper. Serviva un equipaggio adeguato, a bordo e in banchina".
L’incidente è avvenuto sabato 18 maggio: la cima che Anna stava maneggiando si è impigliata nell’elica e l’ha risucchiata sott’acqua. La giovane è morta annegata, sotto gli occhi increduli del comandante. A nulla è valso il tentativo di soccorso. Frequentava la quarta superiore all’istituto nautico Sebastiano Venier di Venezia, dove si era iscritta insieme alla sorella gemella Giulia. Sognava di diventare comandante di grandi navi, viaggiare per il mondo, e intanto, con il suo primo lavoretto, voleva mettere da parte qualche risparmio per festeggiare i 18 anni a giugno.
Il padre, portuale ed ex sommozzatore, le aveva trasmesso fin da piccola l’amore per il mare e anche il senso del pericolo. "Le ho insegnato tutto, a calcolare i rischi, a non esporsi inutilmente. Non avrebbe mai fatto quella manovra se le fosse stato detto che era rischiosa".
La Capitaneria di Porto, spiega, è al lavoro per fare chiarezza: "Sono stati molto umani con me. Quando mi hanno chiamato, era come avere mio padre al telefono. Ma ora voglio la verità. Mia figlia era una nuotatrice esperta, una ragazza preparata. Non si può morire così".
Dalla scuola confermano che il lavoro svolto da Anna non faceva parte di un progetto di stage. Il dirigente scolastico Michele Lamonica la ricorda come una studentessa brillante, affidabile, sempre pronta ad aiutare i compagni più piccoli. "Non era avventata, anzi: era una ragazza responsabile e piena di entusiasmo".
Anna viveva con la famiglia a Malcontenta, nella terraferma veneziana, in una casa gialla immersa nel verde. Tutti in paese la conoscevano: una ragazza solare, impegnata nel volontariato, attiva in parrocchia, presente alla sagra del Redentore e ai centri estivi. "Era una forza della natura", dicono i volontari. "Si prendeva cura dei bambini più piccoli, li accompagnava in montagna, in spiaggia. Sempre sorridente, con un cuore grande".
Insieme alla gemella Giulia condivideva ogni cosa: le scuole, le passioni, le giornate. Inseparabili anche nelle foto pubblicate sui social, fatte di abbracci, sorrisi e complicità. Da anni Anna stava con Jacopo, compagno di banco e fidanzato. Andavano in barca insieme, si volevano bene, progettavano un futuro. "Era una bellissima persona", dice il padre con voce rotta.