La Procura delega i carabinieri: riesaminati bossoli, impronta sull’anta, tecnologie per il Dna. Riaprono le indagini sul delitto risalente al 1994
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A 31 anni dall'omicidio della commercialista romana Antonella Di Veroli, la Procura di Roma ha deciso di riaprire il fascicolo su uno dei casi più inquietanti della cronaca nera capitolina. L'istanza, presentata nell'aprile 2024 dall'avvocato Giulio Vasaturo per conto della sorella della vittima, Carla Di Veroli, ha ottenuto il via libera grazie anche ai nuovi strumenti tecnologici a disposizione degli inquirenti. Il fascicolo è stato assegnato al nucleo investigativo dei carabinieri, che ora avranno il compito di riesaminare i reperti sequestrati nel 1994 con l'ausilio delle moderne tecniche forensi. La speranza è che l'evoluzione scientifica possa finalmente far luce su un delitto rimasto troppo a lungo senza giustizia.
Il corpo senza vita di Antonella Di Veroli fu rinvenuto il 10 aprile 1994 all'interno del suo appartamento di via Domenico Oliva 8, nel quartiere Talenti, a Roma. A trovarla furono la sorella, il cognato, un'amica e l'ex socio Umberto Nardinocchi, preoccupati per il suo silenzio. La scena che si presentarono davanti fu agghiacciante: il cadavere era nascosto all'interno di un armadio sigillato con silicone, con una busta di plastica sulla testa e un foro da proiettile sul capo. Le ante erano chiuse con forza, quasi a voler occultare con cura la presenza del corpo. L'appartamento non mostrava segni evidenti di effrazione, alimentando fin da subito l'ipotesi di un omicidio premeditato da parte di una persona conosciuta dalla vittima.
L'autopsia rivelò una dinamica crudele e metodica: Antonella Di Veroli fu colpita alla testa con una pistola calibro 6,35 millimetri mentre si trovava nel suo letto. Il proiettile, sparato attraverso un cuscino per attutire il rumore, non fu letale. La vera causa della morte fu l'asfissia provocata da una busta di plastica stretta intorno al capo, sigillata in modo tale da impedire qualsiasi possibilità di respirazione. Accanto al letto furono rinvenuti un lenzuolo e un coprimaterasso insanguinati, un cuscino forato da colpi d'arma da fuoco e un solo bossolo sul pavimento. La scena fu interpretata fin da subito come il risultato di un piano preciso e organizzato, eseguito da qualcuno che conosceva abitudini e ambiente della vittima.
Tra i reperti sequestrati all'epoca, oggi al centro della nuova indagine, figurano due bossoli di piccolo calibro, un'ogiva rimasta tra i capelli della vittima e un'impronta rilevata sull'anta dell'armadio. Nessuno di questi elementi ha finora portato a un colpevole. Le analisi balistiche e forensi degli anni Novanta, condizionate dai limiti tecnologici dell'epoca, non permisero di stabilire connessioni definitive. Oggi, grazie a sofisticate tecniche di analisi del Dna e a nuovi strumenti per il rilevamento di tracce biologiche invisibili, quei vecchi indizi potrebbero diventare prove decisive. Gli investigatori puntano ora a ricostruire il profilo genetico dell'aggressore e a compararlo con le banche dati aggiornate, riaccendendo la speranza di una svolta.
Le indagini iniziali si concentrarono su due figure legate alla vita di Antonella: l'ex socio Umberto Nardinocchi e il fotografo Vittorio Biffani, con cui la vittima aveva intrattenuto una relazione sentimentale. Entrambi furono iscritti nel registro degli indagati. Nardinocchi fu prosciolto al termine dell'istruttoria per assenza di elementi concreti. Biffani, invece, fu rinviato a giudizio nel 1995 per omicidio, ma assolto due anni dopo. La sentenza venne confermata in appello e in Cassazione nel 2003. A scagionarlo contribuirono una serie di errori nelle analisi del guanto di paraffina e il ritrovamento di un'impronta sull'armadio non compatibile con la sua. Quella traccia, mai attribuita a nessuno, è oggi al centro delle nuove indagini.
Fin dalle prime fasi investigative si parlò di una possibile "terza pista", che però non fu mai esplorata in modo sistematico. L'attenzione degli inquirenti si focalizzò principalmente sui due uomini con legami diretti con la vittima, lasciando in secondo piano la possibilità dell'intervento di una terza persona, forse sconosciuta. Oggi, grazie al ritrovamento e alla potenziale rianalisi dell'impronta sull'armadio, quella pista mai seguita assume un'importanza cruciale. Se attribuita, potrebbe indicare la presenza di un estraneo sulla scena del crimine, alterando radicalmente lo scenario costruito negli anni Novanta e aprendo nuovi scenari investigativi. In questo contesto, anche le testimonianze di allora potrebbero essere rivalutate.
Antonella Di Veroli era una donna di 47 anni, stimata nel suo ambito professionale come consulente del lavoro e commercialista. Viveva da sola nel quartiere Talenti, in una zona residenziale tranquilla e ben frequentata di Roma. Chi la conosceva la descriveva come riservata, abitudinaria, dedita alla famiglia e al lavoro. Non risultavano in corso relazioni sentimentali al momento della morte. Aveva prestato una somma di denaro consistente, circa 42 milioni di lire, all'ex compagno Vittorio Biffani, mai restituiti. Questo elemento contribuì a orientare inizialmente le indagini in quella direzione. Tuttavia, la sua figura resta al centro di un mistero, vittima silenziosa di un omicidio ancora senza colpevole.
Tra gli elementi che oggi tornano sotto la lente degli investigatori vi sono anche alcune testimonianze raccolte nelle ore successive al delitto. In particolare, un vicino di casa, Sergio Bottaro, raccontò di aver notato una figura sconosciuta aggirarsi nei pressi dell'abitazione di Antonella la sera del 9 aprile 1994. Inoltre, risulta una telefonata fatta da casa Di Veroli a una centrale radio-taxi intorno all'una di notte. Non è mai stato chiarito chi effettuò quella chiamata né se l'auto arrivò mai sul posto. Questi elementi, all'epoca sottovalutati, potrebbero ora acquisire nuovo significato, soprattutto se collegati a eventuali tracce genetiche ritrovate sui reperti in esame.
La sorella della vittima, Carla Di Veroli, ha affidato all'avvocato Vasaturo un messaggio di gratitudine verso le istituzioni. "In questo momento non rilascio dichiarazioni per rispetto verso il prezioso lavoro degli inquirenti, nei confronti dei quali, io e la mia famiglia, riponiamo profonda fiducia e gratitudine", ha fatto sapere tramite una nota diffusa alla stampa. Per la famiglia Di Veroli, la riapertura del caso rappresenta non solo una nuova occasione per ottenere giustizia, ma anche un segnale importante di attenzione verso le vittime dimenticate. Dopo decenni di silenzio, la speranza è che la scienza e l'impegno della magistratura possano finalmente portare alla verità.