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Ecco come funzionano i campi rom in Italia: differenze tra insediamenti autorizzati e abusivi, i servizi garantiti dai Comuni, la gestione delle utenze e le regole di convivenza all’interno delle comunità.
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Il recente caso di Milano, dove quattro minorenni a bordo di un'auto rubata hanno travolto e ucciso un'anziana, ha riportato al centro del dibattito il tema dei "campi rom" in Italia. Una realtà complessa che intreccia gestione amministrativa, aspetti sociali e questioni di ordine pubblico. Esistono due modelli principali: i campi autorizzati, predisposti e regolati dai Comuni, e gli insediamenti abusivi, sorti senza permessi su terreni pubblici o privati. Nei primi, l'accesso avviene secondo procedure ufficiali e prevede servizi essenziali; nei secondi, invece, mancano infrastrutture regolari e l'assenza di riconoscimento istituzionale comporta sgomberi frequenti. Conoscere le regole, i costi e la vita quotidiana in queste aree significa entrare in una realtà spesso raccontata solo attraverso episodi di cronaca.
I campi autorizzati sono aree formalmente istituite dalle amministrazioni locali, spesso in risposta a esigenze abitative emergenziali. Sono regolati da delibere comunali che stabiliscono criteri di ammissione, durata della permanenza e obblighi per i residenti, come il rispetto delle norme igieniche e la frequenza scolastica per i minori. Gli accessi sono controllati e, in alcuni casi, le aree sono recintate con punti di ingresso sorvegliati.
Gli insediamenti abusivi, invece, si sviluppano in assenza di permessi su terreni non destinati a uso abitativo. Non sono sottoposti a controlli sistematici e, in mancanza di infrastrutture, presentano spesso condizioni di precarietà estrema. Le autorità intervengono con sgomberi, soprattutto in presenza di rischi per la sicurezza o la salute pubblica.
Nei campi autorizzati, le amministrazioni comunali garantiscono un minimo di servizi per assicurare condizioni di vita dignitose. Tra questi figurano l'accesso all'acqua potabile, fornita tramite rubinetti centralizzati o impianti individuali; l'elettricità, erogata con contatori personali o sistemi centralizzati; la raccolta dei rifiuti; e interventi di manutenzione ordinaria delle aree comuni. In alcune città è prevista anche la connessione alla rete fognaria, mentre in altre si utilizzano bagni chimici o servizi igienici collettivi.
La sicurezza è affidata a pattugliamenti periodici o a vigilanza privata. Inoltre, mediatori culturali e assistenti sociali operano per favorire l'accesso alla scuola e ai servizi sanitari, riducendo le barriere linguistiche e culturali.
La gestione dei costi delle utenze è disciplinata dai regolamenti comunali. Alcuni Comuni stipulano contratti individuali con i residenti, che pagano in base al consumo reale rilevato dai contatori; altri applicano una tariffa forfettaria mensile che copre acqua, luce e, talvolta, gas. Esistono anche modelli misti, in cui una parte del costo è a carico del Comune come sostegno abitativo, mentre la restante quota è corrisposta dalle famiglie.
Nei campi abusivi, invece, gli allacciamenti sono spesso irregolari e realizzati in modo pericoloso, con cavi volanti e prese improvvisate che espongono al rischio di incendi e folgorazioni. In questi casi, oltre alla questione della sicurezza, si configura il reato di furto di energia.
All'interno dei campi autorizzati esistono regole formali, stabilite dal Comune, e norme sociali proprie della comunità. Spesso è presente un referente, talvolta indicato come "capo campo", che mantiene i rapporti con le autorità e media tra i residenti. La gerarchia interna si basa su legami familiari, età e autorevolezza riconosciuta.
La giornata tipo include attività domestiche, lavoro (formale o informale) e momenti di socializzazione. Alcuni residenti svolgono mestieri tradizionali, come la raccolta e il riciclo di materiali, mentre altri sono impiegati in lavori saltuari. Nei campi abusivi, l'assenza di gestione ufficiale lascia più spazio a regole non scritte e a sistemi di leadership interni, spesso informali ma riconosciuti dalla comunità.
A Milano, i campi autorizzati sono regolati da un disciplinare che prevede servizi minimi garantiti, obblighi di frequenza scolastica per i minori e verifiche periodiche. La permanenza è concessa per periodi rinnovabili, subordinati al rispetto delle regole.
A Torino, negli ultimi anni si è puntato alla riduzione dei grandi campi, favorendo micro-aree per piccoli nuclei familiari, con l'obiettivo di favorire l'integrazione nel tessuto urbano. A Bologna, parte dei fondi comunali è stata destinata a progetti di housing sociale, con l'assegnazione di alloggi popolari in alternativa al campo. Questi esempi mostrano come, in assenza di una legge nazionale specifica, ogni Comune adotti soluzioni proprie, spesso influenzate dalla disponibilità di risorse e dal contesto sociale.
Secondo l'Associazione 21 luglio, il mantenimento di un campo autorizzato può costare ai Comuni centinaia di migliaia di euro l'anno, considerando spese per servizi, manutenzione e interventi sociali. Amnesty International e altre ONG hanno più volte evidenziato come il modello dei campi, pur garantendo condizioni migliori rispetto agli insediamenti abusivi, possa ostacolare percorsi di integrazione a lungo termine, mantenendo di fatto una separazione fisica e sociale.
Per questo motivo, diverse amministrazioni stanno progressivamente chiudendo i campi più grandi, sostituendoli con soluzioni abitative distribuite sul territorio, ritenute più efficaci nel favorire l'inclusione.
L'accesso ai servizi sanitari di base è garantito attraverso la registrazione al Servizio sanitario nazionale, ma non sempre è uniforme. In diversi campi autorizzati vengono organizzate campagne di vaccinazione, screening medici periodici e visite pediatriche, spesso in collaborazione con ASL e associazioni di volontariato. In caso di emergenze igienico-sanitarie, come epidemie o infestazioni, le autorità possono predisporre interventi straordinari di bonifica. Nei campi abusivi, invece, la mancanza di infrastrutture rende più complesso l'accesso a cure regolari e aumenta il rischio di malattie trasmissibili.
Nei campi autorizzati, i regolamenti comunali impongono la frequenza scolastica per i bambini, con controlli periodici da parte dei servizi sociali. Sono attivi progetti di mediazione culturale che coinvolgono famiglie e insegnanti, al fine di ridurre il tasso di abbandono scolastico, ancora superiore alla media nazionale. Alcuni Comuni organizzano trasporti dedicati per accompagnare i minori a scuola e prevedono attività extracurricolari per favorire l'inclusione. Nei campi abusivi, invece, la frequenza scolastica è più discontinua, a causa della precarietà abitativa e degli sgomberi frequenti.
Negli ultimi anni, alcune amministrazioni locali hanno scelto di superare gradualmente il modello dei campi rom, considerato da molti un ostacolo all'integrazione. Firenze, ad esempio, ha attuato un piano di chiusura progressiva degli insediamenti, offrendo alle famiglie alternative abitative in appartamenti pubblici o in affitto calmierato. Anche Genova e Padova hanno sperimentato soluzioni simili, affiancando l'assegnazione di alloggi a percorsi di inserimento lavorativo e scolastico. I primi risultati indicano che la dispersione abitativa favorisce una maggiore partecipazione alla vita della città e riduce episodi di conflitto sociale.
In Italia non esiste una legge nazionale che regoli in modo uniforme i campi rom. La gestione è demandata alle amministrazioni comunali, che possono decidere se istituirli, mantenerli o chiuderli, definendo in autonomia regole di accesso, servizi e tariffe. Alcune Regioni hanno emanato linee guida, ma la decisione finale resta locale.
Per gli insediamenti abusivi, si applicano le norme urbanistiche e sanitarie: in caso di occupazione illegale e rischi per la salute, i Comuni possono disporre sgomberi e bonifiche delle aree. La questione resta, quindi, legata alla volontà politica e alla disponibilità di risorse delle singole amministrazioni.