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Coronavirus, a Venezia le detenute rispondono alle violenze nelle carceri con una "protesta solidale": donano 110 euro in un giorno all'ospedale

A Tgcom24 parla suor Franca, che lavora alla Casa di Reclusione della Giudecca: "Una voce fuori dal coro. Le donne hanno raccolto una cifra simbolica, ma per alcune anche un euro può significare tanto. Mi hanno commosso"

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Una “protesta solidale” in risposta alle violente rivolte scoppiate all'interno delle carceri italiane al seguito del diffondersi del coronavirus. E' questa l'iniziativa delle detenute della Casa di Reclusione Femminile della Giudecca - Venezia. Pur essendo solidale con gli altri detenuti e chiedendo comunque di poter vedere i propri cari, la stragrande maggioranza delle donne del carcere (71 su 85) si è dissociata dalle violenze, si è unita e ha dato vita a una raccolta fondi per mostrare vicinanza alle persone che stanno combattendo il coronavirus. Le donne hanno così raccolto 110 euro in un giorno da donare al Reparto di Terapia Intensiva dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre. "Si tratta di una cifra simbolica, è vero, ma per alcuni anche un euro può significare tanto. E queste ragazze hanno dato tutto ciò che avevano. Quell'euro era tutto ciò che avevano", spiega a Tgcom24 sorella Franca, membro delle Suore di Maria Bambina, che lavora nel carcere.

Suor Franca, le detenute hanno raccolto 110 euro in un giorno. Come diceva, una cifra simbolica, ma significativa per chi lavora in prigione...
Esatto, soprattutto in questi giorni, in cui queste donne hanno visto interrotte, per un periodo non prevedibile, tutte le attività delle cooperative che danno loro lavoro all'interno di vari laboratori e progetti (lavanderia, laboratorio di cosmetica, orto, sartoria), a causa del quasi completo azzeramento delle commesse da parte dei committenti esterni, rappresentati qui a Venezia dalle grandi catene di alberghi di lusso, tutti desolatamente chiusi. 

 

 

Un gesto lodevole quello di raccogliere fondi anche in un momento così delicato per loro...
Sì, mi viene in mente un’immagine evangelica: la vedova che, al tempio, dà due spiccioli. E quegli spiccioli sono tutto quello che ha. Ecco, allo stesso modo, queste donne mi hanno commosso. Volevano far sentire la loro solidarietà alla popolazione veneziana, a medici e infermieri in prima linea e all'Italia intera che sta subendo questo flagello. La loro è una bella voce da far sentire.

 

Una voce fuori dal coro, no?
Assolutamente, vista anche la situazione nelle altre carceri. Le donne della Giudecca si sono dissociate dalle proteste violente. Questo non perché non siano solidali con gli altri detenuti. Al contrario, anche se alla Giudecca il problema del sovraffollamento non esiste, nelle carceri italiane rimane il grande fardello. Infatti, il vero motivo delle proteste è quello: immaginiamo di vivere, in questo periodo storico, in una cella a stretto contatto con altre persone. Se scoppia il contagio nelle carceri diventa molto difficile riuscire a fronteggiare il problema. Per questo, la paura travolge e, purtroppo, in alcuni posti, si trasforma in violenza. Le detenute della Giudecca, invece, hanno scelto la via della solidarietà. Quella più efficace e che può ricongiungere tutti.


Quindi, come si sono organizzate per diffondere questa “protesta solidale”, come loro stesse hanno chiamato l'iniziativa?
Si sono riunite e, nel corso di un’assemblea, hanno scritto una lettera. Poi hanno chiesto alla direttrice del carcere, la dottoressa Antonella Reale, di poter far arrivare la loro voce anche all'esterno della prigione. 


Cosa chiedono?
Attenzione per tutta la popolazione detenuta e pregano le autorità di valutare la possibilità di misure che permettano, almeno a una parte di loro, di ricongiungersi con le famiglie. Inoltre, chiedono di non essere dimenticate.

 

Partiamo dal primo punto. Com'è la situazione per loro adesso? Non deve essere facile non poter vedere i propri cari.

In questo momento, hanno la possibilità di effettuare quattro chiamate a settimana con Skype, oltre alle telefonate normali. I colloqui visivi sono stati interrotti per tutelare la sicurezza dei detenuti e dei loro cari. Sono state seguite le direttive del decreto. C'è da dire che in questo momento, stiamo vivendo un po’ tutti agli arresti domiciliari, forse adesso capiamo cosa significa essere privati della libertà. Noi almeno abbiamo Internet e riusciamo a restare in contatto e connessi col mondo, loro non hanno nulla. Adesso che si è bloccato tutto - anche le attività - il tempo dentro il carcere non passa mai.

 


E com'è l'umore delle detenute?
Noi suore e l'amministrazione cerchiamo di portare serenità, un grido di speranza, cerchiamo di star loro vicino e di far loro compagnia. Adesso stiamo dipingendo un cartello con su scritto #andràtuttobene. Però la paura c'è, questo è un tempo sospeso. In uno spazio ristretto, la sensazione di angoscia aumenta ancora di più. Anche perché le detenute sono dentro e sono in pensiero per i loro cari.

 

Torniamo al secondo punto. Ha detto che le carcerate chiedono di non essere dimenticate. Cosa intendono?
Il carcere è un luogo ancora poco conosciuto perché fa paura. Nell'immaginario collettivo, i cattivi sono dentro e i buoni sono fuori. Quando, invece, inizi a conoscerlo poi ti accorgi che hai a che fare con persone che hanno sbagliato, che stanno pagando per i loro errori, ma che spesso vengono ingiustamente dimenticate. Un essere umano non è solo il reato che ha commesso, c'è molto di più dietro, è ombra e luce come lo siamo tutti noi.

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