© Archivio Fondazione Stava 1985
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Il 19 luglio 1985 nel comune di Tesero, in Trentino, il cedimento dei bacini di decantazione di un impianto per il trattamento della fluorite causò una colata di fango che spazzò via il piccolo abitato di Stava, uccidendo 268 persone. La testimonianza di Nicola dell'Aquila che nella tragedia perse la sua famiglia
di Alessandro Bontempi© Archivio Fondazione Stava 1985
© Archivio Fondazione Stava 1985
Fu una centralinista, nel pomeriggio del 19 luglio 1985, a fermare Nicola dell’Aquila nei corridoi della Borsa di Milano, dove lavorava come agente di cambio. “Mi chiese se mia moglie e mia figlia erano rientrate dalla vacanza in montagna, perché aveva sentito alla radio di una tragedia appena accaduta in Trentino. Si parlava di una frana”. Una telefonata in prefettura confermò i timori: alle 12:22 una colata di fango e detriti, causata dal cedimento dei bacini di decantazione di un impianto per la lavorazione della fluorite, aveva travolto la Val di Stava seminando morte e distruzione. Il piccolo abitato di Stava, nel comune trentino di Tesero, fu raso al suolo in pochi minuti: tre alberghi, 53 case, sei capannoni, tutto distrutto. Morirono 268 persone, tra cui 28 bambini sotto i dieci anni. Tra le vittime anche Maria, 46 anni, e la piccola Cristina, 8 anni: la moglie e la figlia di Nicola dell’Aquila. A quarant’anni dalla strage, il suo è un racconto fatto di lunghe pause, di lacrime e di ferite che il tempo non è riuscito a guarire.
Cosa ricorda di quel giorno?
Quella mattina a Piazza Affari la lira subì un crollo storico nei confronti del dollaro. Per noi furono ore piuttosto complesse. Quando rientrai in ufficio, la centralinista mi riferì ciò che aveva sentito in radio. Grazie a un collega, riuscimmo a parlare con il prefetto. Ci disse che l’albergo Miramonti, dove soggiornavano mia moglie e mia figlia, non esisteva più.
Partì subito.
Mi accompagnò un amico, Italo. Partimmo con la speranza che fossero fuori, in gita, con una delle escursioni organizzate dall’hotel. Arrivammo a Tesero la sera stessa, mentre i soccorritori scavavano nel fango alla luce delle fotoelettriche. Davanti ai nostri occhi non era rimasto nulla di ciò che ricordavamo, solo un’enorme massa di fango, alberi, macerie. Una scena fuori da ogni immaginazione.
Quando capì che non c’erano speranze?
Ci dissero che i corpi recuperati venivano portati nella chiesa di Cavalese. Andammo lì. All’arrivo di ogni barella sollevavo il telo. Ho visto cose che non si possono raccontare. Ma loro non c’erano. Nel frattempo, chi aveva partecipato alle escursioni era rientrato. E loro no. La mattina dopo convinsi Italo a rientrare a Milano. Lo accompagnai alla fermata del bus, poi tornai a Stava. Mi misi su un piccolo rilievo da cui potevo vedere la zona in cui presumibilmente doveva essere l’albergo e aspettai. Passò mezz’ora. Dal fango vidi spuntare il lembo di una vestaglia a colori.
La riconobbe immediatamente.
Era inconfondibilmente quella di mia moglie. Corsi giù. I soccorritori le avevano appena recuperate. Mi feci sollevare il telo che le copriva e le vidi lì, insieme. Le trovarono nel fango abbracciate, in un ultimo, bellissimo gesto di protezione.
Qual è l’ultimo ricordo che ha di loro?
Andai a trovarle in albergo alcuni giorni prima della tragedia. Loro sarebbero rimaste, io sarei tornato a Milano per lavoro. Con mia moglie ricordo che, prima della partenza, ci siamo salutati con l’affetto di una giovane coppia che sa di doversi separare per qualche giorno. Mia figlia era al parco giochi, con gli altri bimbi. Mentre mi incamminavo a piedi verso la fermata del pullman, la rividi un’ultima volta. Stava uscendo dal parco giochi, ci siamo incrociati per caso. Mi è corsa incontro e mi è saltata addosso. Ci siamo salutati così.
La vicenda giudiziaria ha portato a diverse condanne. Sente che giustizia è stata fatta?
No, assolutamente no. Dopo le condanne, nessuno è mai andato in carcere. Di questa tragedia si è sempre parlato poco, quasi come se ci fosse stato il desiderio di mettere tutto a tacere. La verità è che tutto questo è stato causato dall’incuria e dal profitto: i bacini non erano strutturalmente sicuri, le segnalazioni ignorate, gli allarmi sottovalutati. Alla fine, qualche condanna è arrivata, ma il dolore resta: chi è morto non torna più, e la sensazione è che giustizia piena non sia mai stata fatta.
Oggi, dopo quarant’anni, cosa prova?
Il dolore non passa mai, ma col tempo ho sviluppato una visione fatalista: forse era scritto così. Il destino mi ha dato due persone meravigliose, ma solo per un tempo troppo breve. Mi sono risposato, ma non ho mai trovato il coraggio di avere un altro figlio. Quando vedevo una carrozzina, mi sembrava qualcosa di irreale. La paura di rivivere lo stesso dolore non mi ha mai lasciato. Anche il secondo matrimonio è stato un passo difficile, una battaglia interiore. Ma l’ho fatto per amore. Un figlio, invece, no. Non ce l’ho fatta. Quella ferita è ancora aperta.