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Io dieci anni fa, nel cuore dell'Abruzzo ferito: soccorsi, lacrime, abbracci e quella ragazza salvata dalle macerie

Il giornalista di Tgcom24 Andrea Ferrigno ripercorre i suoi otto mesi trascorsi nella regione colpita dal terribile terremoto del 2009 come inviato del Tg4

Io dieci anni fa, nel cuore dell'Abruzzo ferito: soccorsi, lacrime, abbracci e quella ragazza salvata dalle macerie - foto 1
lapresse

di Andrea Ferrigno

L'orologio segna le 3:32.

La spalliera del letto sbatte contro il muro e mi sveglia. Il lampadario dondola, il materasso trema. Aspetto che si fermi, ma inizio a contare: arrivo fino a 40. Poi il silenzio. Nella mia testa c'è un solo pensiero: un terremoto.

LʼAquila a dieci anni dal terremoto del 2009: ancora transenne e macerie

Epicentro L'Aquila, si parte - Sono a Roma, che non è una zona sismica, quartiere Monteverde. Casa mia si trova al secondo piano, ma ha ballato lo stesso. E allora, inizia la paura e mi attacco al telefono, mentre accendo il computer e mi collego a internet per cercare notizie. Il primo numero che chiamo è quello della Protezione Civile. La sorpresa è che la risposta arriva al primo squillo: l'epicentro è nella zona de L'Aquila, magnitudo 6.3. E allora non c'è un minuto da perdere, bisogna partire. Mando un sms al mio vicedirettore dell'epoca e chiamo Emanuele, un operatore di ripresa con cui c'è sintonia.

Ci vediamo alle 5 e partiamo. Quando arriviamo a pochi chilometri da L'Aquila la prima sorpresa: una sopraelevata dell'A24 è spezzata, c'è un dislivello di mezzo metro. Per passare il rischio è duplice. Si può danneggiare l'auto, ma possiamo finire anche nel vuoto se il cemento cede. E così scendiamo, per alleggerire il peso e spingiamo. Il fondo gratta sull'asfalto, ma l'operazione riesce e passiamo.

Arrivo a L'Aquila, tra paura e macerie - Sono le 6 e 30 quando arriviamo in città. La gente è in strada, tra le macerie. Ricordo un padre stringere stretto una bimba con gli occhi vuoti e la faccia piena di polvere sotto un portico rimasto in piedi per miracolo. Un negozio, all'inizio di Via XX Settembre completamente sventrato con le scatole del magazzino in evidenza e un ragazzo lì a fare da guardia. Il collega di Studio Aperto, Guido Del Turco, già in strada a documentare ciò che era avvenuto. Ma era la seconda volta che tornavo lì in pochi giorni. Il 31 marzo ero già stato a girare un servizio a L'Aquila da tempo sotto uno sciame sismico, il giorno in cui si riuniva la Commissione grandi rischi negli uffici della Regione Abruzzo.

Prima del disastro - Il Direttore del Tg4, Emilio Fede, sentiva che quelle scosse non erano normali e anche se finora di lieve entità mi spedì a controllare. Andai a Onna (poi distrutto dal sisma del 6 aprile, 41 vittime su circa 350 abitanti), dove c'era un asilo con danni minimi, in città alla scuola De Amicis dove trovammo qualche crepa.

E sentii la gente, per nulla preoccupata e abituata ai terremoti (un signore mi ripeté - in dialetto - un vecchio detto: "L'Aquila e Ascoli, tremeno ma non cascheno"... ancora oggi al solo pensiero mi viene la pelle d'oca). Per cui conoscevo bene la zona e sapevo dove muovermi: andammo nella zona della Prefettura, dove trovammo la scritta "Palazzo del Governo" spezzata e piegata e poi subito in uno dei pochi edifici che non aveva subito danni: la scuola allievi marescialli della Guardia di Finanza. Si era mosso immediatamente il Governo del paese ed era arrivato il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che illustrò quello che era successo: partendo dai danni e arrivato alle soluzioni.

Tutti in strada a scavare - Nel frattempo le ore passano. Vigili del fuoco arrivano dalle regioni vicine. La Protezione civile inizia a scavare. Non ho visto una persona ferma senza fare nulla. E gli aquilani erano in prima fila: ricordo - tra i tanti - un ragazzo usare la parte in ferro di un cartello stradale per spalare i calcinacci nella zona della Casa dello Studente.

Lì sotto c'erano i suoi amici e lui si era salvato perché aveva il sonno leggero e alla prima scossa era riuscito a correre in strada prima che crollasse tutto. Vicino c'era un altro palazzo crollato. Sotto una ragazza ancora viva, perché finita sotto la rete del letto, ma bloccata dalle macerie (mi sembra si chiamasse Marta). I vigili del fuoco le parlano attraverso un buco per rassicurarla. Sono le quattro del mattino quando la liberano e da tutta la gente presente parte un applauso. Anche da me, perché era difficile non farsi vincere dall'emozione e perché mi sentivo partecipe - documentandolo - di un piccolo miracolo.

Tende e dirette tv - Stanchi torniamo in auto. E' troppo tardi per cercare un posto dove dormire e ci accomodiamo, come possiamo sui posti di dietro. Due volontari della Protezione civile dividono con noi la loro cena. Ma ovviamente non riusciamo a chiudere occhio: la mattina alle 11:30 c'è il telegiornale e bisogna girare, montare e prepararsi per la diretta allestita allo stadio del rugby, dove già nella notte sono state montate le prime tende. Mi faccio la barba senza schiuma (perché me l'ero dimenticata) usando lo specchietto retrovisore dell'auto e alle 7 siamo già al lavoro.

Il matrimonio tra le macerie - La mia memoria di quei primi giorni è fissa su due pensieri: la forza della gente de L'Aquila, non disposta a pietismi, a piangersi addosso e il sorriso di chi lavorava per la macchina dei soccorsi. E poi i funerali, il saluto alle 309 vittime, la voglia di ricominciare. Emblematico un episodio del 18 aprile. Due ragazzi, Chiara e Massimo decidono di rispettare le loro promesse e si sposano, nel giardino di una scuola materna: lei rinuncia al bianco, lui alla cravatta.

Gli amici urlano: Forza L'Aquila. E noi eravamo lì, come quando con i vigili del fuoco accompagnavamo i cittadini de L'Aquila a recuperare gli averi che potevano essere salvati dai monconi delle loro case. E c'era chi non voleva abbandonare i propri cani e gatti, perché senza di loro non c'era casa. Non lasceranno mai la mia memoria il "miao" disperato di un gattino lasciato indietro per cinque giorni quando la padrona è tornata a riprenderlo e un cane che vegliava la porta di un palazzo caduto: l'ho visto lì due volte a distanza di tre giorni, poi non più. Mi hanno detto che il suo amico umano una volta visto il servizio che avevamo girato facendolo vedere, era arrivato da Pescara per portarlo via.

La ricostruzione - Tra una storia e l'altra, sono rimasto a L'Aquila per otto mesi. Ho seguito gli operai costruire le casette: il loro orgoglio e fatica per finire prima dell'inverno, per dare un tetto a chi il suo l'aveva perso. Poi la consegna, a cominciare da settembre, con l'emozione di chi quel tetto l'aveva ricevuto. Senza le polemiche che in quei mesi si erano susseguite e che poi sono proseguite, anche con le inchieste giudiziarie. Ancora oggi mi sento un po' aquilano. E quando sono triste penso sempre alla forza degli abruzzesi. Una forza che mi ha segnato. E soprattutto, ogni tanto sogno quella notte del 6 aprile e la spalliera del letto che sbatte sulla parete, ma pensando alla gente de L'Aquila non ho più paura.​