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Lidia, quasi uccisa dall'ex: "Vi mostro quello che ha fatto, io abbandonata dallo Stato"

Su Facebook le foto della violenza: "Che tutti vedano come mi aveva ridotta". Una petizione per dare un lavoro alle donne vittime di violenza

"Vi mostro il mio corpo.

Quello che nessuno vuol vedere, un corpo massacrato, dilaniato da chi mi chiamava "Amore"!". Comincia così il lungo post di Lidia Vivoli, 43 anni, una donna siciliana che ha deciso di mostrare su Facebook i segni della violenza subìta 5 anni e mezzo fa dal suo ex fidanzato. Quell'uomo sta per tornare in libertà e vive a pochi chilometri da lei. Lidia chiede di poter ricominciare senza paura: un lavoro e la sicurezza di non dover più incrociare il suo sguardo.

Le foto di Lidia Vivoli sono un pugno nello stomaco, anzi, 41: uno per ogni immagine che ha deciso di condividere su Facebook per mostrare a tutti i segni tangibili della furia di un uomo su di una donna. Pugni che bruciano, ma fanno sicuramente meno male delle ferite che Lidia ha subìto una maledetta notte di oltre cinque anni fa, quando fu picchiata, sequestrata, soffocata, colpita a forbiciate dalla persona che diceva di amarla. "Io sono una sopravvissuta, non una vittima - dice Lidia a Tgcom24 -. Io so cosa hanno provato tutte le vittime di femminicidio, so cosa si sente a pensare di morire. E voglio che la mia esperienza serva da monito".

I segni sono sulla sua pelle, così come la paura che non l'abbandona e anzi, torna a bussare alla sua porta: dopo due anni e mezzo, il suo aggressore sta per tornare in libertà. "Il 10 ottobre doveva uscire: condannato a 4 anni e 6 mesi per tentato omicidio nei miei confronti, ha patteggiato scontando una pena di poco più di 2 anni e mezzo - sospira Lidia -. Una settimana dopo mi convocano i carabinieri: la scarcerazione si è fermata perché è stato emesso un ordine di custodia cautelare nei suoi confronti dopo tutte le mie segnalazioni. Ma quanto potrà durare? A gennaio ci sarà il processo". Lidia ha paura: chiede giustizia e protezione. "Quando era ai domiciliari, ha picchiato me e il mio nuovo compagno, mi ha fatto stalking, mi ha perseguitato: per questo motivo ora è in cella e subirà un nuovo processo". Mai una parola di rabbia o disprezzo da parte di Lidia per quell'uomo, solo il desiderio di voltare pagina: "Io non lo odio. Voglio solo avere il diritto di ricominciare a vivere". 

Ricominciare a vivere
Ma come? Come fa una sopravvissuta, come lei si autodefinisce, a tornare alla luce? "Ho perso il lavoro poco dopo l'aggressione - spiega , perché la compagnia aerea per la quale lavoravo è fallita. Nessuno mi aiuta a trovare un lavoro". E allora l'idea: Lidia ha anche aperto una petizione su change.org per chiedere al ministero dell'economia di inserire le donne vittime di violenza tra le categorie protette in modo che possano ricostruirsi una vita lontano dai luoghi, e spesso dalle persone, che hanno segnato la loro esistenza. Petizione che ha già raccolto oltre 35mila firme.

Una petizione per ridare una vita a chi l'aveva quasi perduta. Per trovare un lavoro, per rifarsi una vita lontano da quel luogo di dolore, distante dagli sguardi di chi condanna le vittime invece dei carnefici, al sicuro dal terrore di incrociare per sbaglio la strada o lo sguardo del lupo. "Tra le categorie protette ci sono i reduci della Seconda Guerra Mondiale - racconta -. Eppure anche noi siamo reduci. Abbiamo ferite fisiche, emotive, psichiche. I testimoni di mafia vengono ricoperti d'oro, noi siamo testimoni con le nostre ferite. Ogni anno 400 donne muiono per mano di un uomo e molte di più sopravvivono senza che nessuno faccia niente per loro. E' ora che la gente guardi in faccia la realtà. Che abbia lo stesso coraggio di guardare le mie foto tanto quanto ne ho avuto io di diffonderle". Ma perché mettere in piazza quelle ferite, quel dolore? "Perché io ho paura di morire - dice -. E allora se muoio, tutti devono sapere perché è successo. E perché questo non è un film, questa è la vita, quello che accade ogni giorno. E' brutto? E' sgradevole? Va affrontato per evitare che ci siano altre vittime".

Lidia racconta lucidamente il suo dramma. Racconta nell'ultimo post nei dettagli l'aggressione e la rabbia contro chi cerca di farla passare per una che esagera, che ha trasformato un litigio "qualunque" in un tentativo di omicidio: "Io non credo che possa esistere un motivo per giustificare tale ferocia! Nessuna scusa, nessuna giustificazione! Chi mi ha fatto questo, la notte tra il 24 ed il 25 giugno 2012, continua a dire che non è vero, che sono una donnaccia, che non voleva uccidermi! In fondo 6 pugnalate, mentre dormivo, dopo avermi colpito con una padella in ghisa, sulla testa, (finché non si è rotto il manico) a cosa servivano? Il tentativo di soffocamento con il filo dell'abat-jour prima e del ventilatore poi, le costole rotte, la gola graffiata a mani nude! L'ultima pugnalata all'addome..."

Un racconto tragico, al quale si aggiunge l'amarezza di sentirsi abbandonata da chi dovrebbe proteggerla, da chi dovrebbe occuparsi di lei e dei suoi figli, di chi ha promesso di assistere chi è in difficoltà: lo Stato. Che concede una seconda chance ai carnefici ma non riesce a farsi carico del dolore emotivo e delle difficoltà oggettive delle vittime. "Ed ora? Ho denunciato ma sono stata abbandonata! Non merito di ricominciare a vivere? Non merito serenità? No! Tutto deve essere concesso solo a loro, agli assassini! Per loro vi sono premi, sconti di pena, perfino un lavoro! Ma la mia, la nostra pena, non avrà sconti! Io un lavoro lo avevo, lo amavo.... Ora non esiste più... Ora c'è solo lo sconforto di essere stata abbandonata da uno Stato che ci dice di denunciare, di essere forti e poi ci lascia morire, nell'indifferenza più totale!"

Il post su Facebook si conclude con un appello accorato: "Io parlo a nome di tutte le donne vittima di violenza! Di quelle che hanno paura, di quelle che hanno denunciato, di quelle che non ci sono più, dei loro e dei nostri figli, dei bambini uccisi in nome di una vendetta senza senso". A parlare per tutte loro, le fotografie della violenza. Quarantuno pugni nello stomaco di chi crede che non ci sia differenza tra uomo e donna. Che un litigio sia un litigio. Che in nome dell'amore si possa odiare fino ad ammazzare.