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ThyssenKrupp, la strage in fabbrica

Sette operai morirono nel rogo

LaPresse

Fiamme alte dieci metri, un inferno di fuoco.

Era la notte del 6 dicembre 2007 quando allo stabilimento delle acciaierie ThyssenKrupp di Torino, in corso Regina Margherita, divampò un devastante incendio alla linea 5. Un operaio, Antonio Schiavone, investito in pieno dal rogo, morì subito. Altri sette rimasero feriti. Si salvò solo Antonio Boccuzzi, mentre morirono nei giorni successivi gli altri sei: Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino.

Una tragedia accaduta quando già era stata decisa, nei mesi precedenti, la chiusura della fabbrica e il trasferimento dei macchinari, tra cui proprio la linea 5, nella sede di Terni. Sarebbe stato un incendio di modeste dimensioni, causato da alcune scintille sulla linea che finirono su della carta, se non si fosse rotto un flessibile dal quale uscì olio e, in rapida successione, secondo le ricostruzioni dei periti al processo, anche altri 10-12 flessibili.

La vicenda scosse profondamente l'opinione pubblica e fin da subito si mise al lavoro il pool della Procura di Torino che si occupa di incidenti sul lavoro, coordinato dal procuratore aggiunto Raffaele Guariniello, affiancato dai sostituti Laura Longo e Francesca Traverso. Un'inchiesta condotta a tempo record, che ha portato all'apertura del processo di primo grado il 15 gennaio 2009, a poco più di un anno dalla tragedia.

Un dibattito già entrato nella storia perché, per la prima volta, viene contestato in un processo per morti sul lavoro il reato di omicidio volontario (con dolo eventuale), accusa mossa all'amministratore delegato Harald Espenhahn, condannato a 16 anni e mezzo, con una riduzione dei 21 anni previsti per questo reato come massimo della pena, in considerazione di quello che Guariniello ha definito "un non pessimo comportamento processuale" dell'imputato, ascoltato in aula nel corso del processo.

La tesi dell'accusa, accolta dalla corte, è che Espenhahn abbia deciso di posticipare i lavori per la messa in sicurezza delle linee di lavorazione dello stabilimento di Torino a una data successiva alla già prevista chiusura al trasferimento a Terni dei macchinari, accettando così il rischio del verificarsi di incidenti o incendi mortali. Un rischio che, per i pm, era quasi una certezza, viste le condizioni di progressivo abbandono in cui versava la fabbrica negli ultimi mesi: la manutenzione ordinaria venuta meno, la sporcizia (con perdite d'olio e carta di lavorazione a terra), il venir meno delle professionalità più specializzate che via via trovavano altri impieghi mentre chi restava doveva coprire anche mansioni per le quali non era formato; gli estintori scarichi o malfunzionanti, le visite degli ispettori dell'Asl annunciate.

Un quadro in cui anche l'assicurazione aveva imposto l'adozione di misure di sicurezza per abbattere i massimali della franchigia, alzati proprio a causa dell'elevato rischio di incidenti (e per le quali gli investimenti erano già stati stanziati, per essere però posticipati).

Gli altri imputati al processo, tutti dipendenti e responsabili della Thyssenkrupp, sono Cosimo Cafueri, Giuseppe Salerno, Gerald Priegnitz, Marco Pucci, Daniele Moroni: tutti sono stati condannati per omicidio e incendio colposo (con colpa cosciente) e omissione dolosa delle cautele antifortunistiche. Chiamata in causa anche la società in qualità di responsabile civile.

Oltre 50 le parti civili che si sono costituite al processo, tra le quali Regione Piemonte, Comune e Provincia di Torino, sindacati, associazioni in difesa della salute sul lavoro, operai della Thyssen di Torino e i parenti delle vittime, che prima dell'apertura del processo avevano già ottenuto dalla Thyssenkrupp il risarcimento record di quasi 13 milioni di euro complessivi.

Se ad Espenhahn e Moroni Guariniello ha riconosciuto un atteggiamento "collaborativo", gli strali del pm si sono abbattuti sugli altri imputati, che avrebbero messo in atto "una vera e propria strategia per influenzare a loro vantaggio l'esito del processo", arrivando anche al punto di tentare di condizionare le dichiarazioni di alcuni testi, "una cosa che non avevo mai visto prima": ecco perché, concludendo la sua requisitoria, il 14 dicembre 2010, Guariniello ha chiesto alla Corte di trasmettere alla Procura gli atti relativi a quattro persone ascoltate nel corso del dibattimento, per procedere contro tre di queste per falsa testimonianza. Il quarto, l'ingegner Berardino Queto, consulente della Thyssen, per l'accusa potrebbe essere responsabile in concorso dei reati di omicidio e incendio colposi (con colpa cosciente) e di omissione delle cautele antinfortunistiche, in relazione alla sua posizione di autore del documento di valutazione dei rischi della Thyssen, di cui i magistrati hanno ampiamente illustrato quelle che ritengono le vistose lacune quando non delle vere e proprie bugie: "La valutazione dei rischi - avevano detto - è stata confezionata ad arte per arrivare a determinare un rischio di incendio medio su quasi tutti gli impianti per creare preventivamente una giustificazione per la mancata adozione degli impianti automatici di rilevazione e spegnimento incendi che avrebbero potuto salvare la vita ai 7 operai".