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Reduce di Nassiriya a Tgcom24: "Tanti soffrono di crisi post traumatica ma l'Arma insabbia"

Lʼex carabiniere parla dopo la strage di Kandahar ad opera di un soldato Usa: "Siamo delle bombe a orologeria"

“Ricordo solo un mio vicino di casa che salva mio figlio: rivedo i suoi occhi spalancati che mi guardano, mentre io gli sto sopra.

E' allora che ho capito e ho detto a mia moglie: portami in ospedale”. Piero Follesa, brigadiere oggi in congedo, racconta così quando ha realizzato che quell'inquietudine che lo inseguiva da quando era tornato dalla missione a Nassiriya, era qualcosa di più di semplice stress.

Come scoprirà più tardi, la malattia di cui soffre è il Ptsd, disturbo post-traumatico da stress, una sindrome che può colpire chi ha subito eventi traumatizzanti. Lo stesso che può aver portato alla recente strage in Afghanistan, dove un militare statunitense ha ucciso 16 civili. “Chi ne soffre non riesce a elaborare i fatti traumatici come ricordi, ma è come se li rivivesse continuamente – racconta la psicoterapeuta Sabrina Bonino, che, assieme al dottor Daniele Moretti, oltre a Follesa ha avuto in cura altri quattro reduci da Nassiriya -. Non ripensa a quei momenti, li rivive. Nei casi più estremi si sentono gli stessi odori e i medesimi rumori di quegli istanti. Non si è qui e ora, si è di nuovo là”.

Follesa, numerose missioni all'estero (tra cui Bosnia e Albania), è a Nassiriya il 12 novembre 2003, quando un camion pieno di esplosivo scoppia davanti alla base “Maestrale”. Rimane solo lievemente ferito, mentre altri 19 soldati italiani muoiono. Continua la missione, torna in Italia e, nonostante non si senta nel pieno delle forze, decide di ripartire per l'Iraq. Resiste solo 40 giorni.

“Il giorno dell'attentato, stavo entrando in una stanza della caserma. La tv era accesa: stavano trasmettendo l'oroscopo, quello del Leone. E' il mio segno: incuriosito ho alzato gli occhi verso la televisione e un secondo dopo, c'è stato un boato. E io ero là fuori. Ho visto i corpi dei miei commilitoni straziati dall'esplosione. Quando sono tornato in Iraq, non riuscivo a entrare in caserma se sentivo una televisione accesa: bastava quello perché io scappassi fuori. Era di nuovo il momento dell'attentato. Ho lasciato l'Iraq, sono tornato in Italia e ho ripreso il servizio ordinario”.

Dopo non molto tempo però è stato congedato…
“Mi sono reso conto che non potevo continuare: non riuscivo ad andare al poligono, uscivo in pattuglia, ma mi rendevo conto che qualcosa non andava. Toccare le armi mi era impossibile: bruciavano. Era come tenere in mano un carbone ardente. Sono iniziati episodi sempre più gravi, ho fatto numerosi ricoveri in psichiatria. Nel 2007 sono stato congedato”.

Cosa significa soffrire del Ptsd?
“Oggi significa non aver più una vita. Non ricordarsi cosa significa la parola tranquillità: dormo tre ore a notte, nonostante prenda dei farmaci. Non riesco a guardare determinati film, i rumori come quelli dei petardi mi sono insopportabili. Dal 2004 non dormo con una donna: durante la notte, nelle poche ore che riesco a prendere sonno, mi muovo in continuazione, ho degli scatti. Dormire con qualcuno può significare aggredirlo, picchiarlo senza rendersene conto. Ogni tanto ho bisogno di scappare, vado lontano, dove nessuno mi conosce, dove nessuno sa chi sono, chi ero e non mi chiede nulla”.

In Italia lei è uno dei pochi che parla di questo disturbo…
“I vertici militari non vogliono che se ne parli: pensi che ufficialmente l'ospedale militare del Celio, ha riconosciuto solo tre casi di Ptsd. Eppure solo fra i miei colleghi reduci di Nassiriya eravamo in cinque a essere curati al Centro di igiene mentale di Finale Ligure. Non se ne parla perché non se ne vuole parlare, altrimenti si dovrebbero creare strutture militari apposite per seguire questi casi. Io sono stato curato quasi esclusivamente in strutture pubbliche. Il risultato, oltre alla mancanza di aiuto che riceviamo, è che spesso questo tipo di disturbo viene dissimulato: chi lo conclama, viene congedato. E un ragazzo, magari di 20-30 anni che sogna la carriera militare, cosa fa? Si fa congedare? No fa finta di niente, minimizza, per poter continuare la vita nell'esercito. E non solo questo può peggiorare la sua situazione psichica, ma è pericoloso per sé e per gli altri”.

L'Arma le è stata vicino in questo periodo?
“Certo si sono fatti sentire: ogni volta che ho parlato con i media. Allora mi hanno massacrato: le pressioni perché non parlassi sono state continue. Non ho bisogno che mi dica quando sarà pubblicata la mia intervista, come altre volte, alle sei la mattina mi sveglierà un ufficiale per dirmelo. L'ultima volta ho detto: se dico delle cose non vere, denunciatemi, altrimenti lasciatemi in pace. Di fatto nessuno mi ha denunciato”.

La strage avvenuta in Afghanistan, ad opera del soldato Usa, secondo lei quanto può avere a che fare con una situazione simile alla sua?
“Secondo me moltissimo. La guerra in Afghanistan è particolarmente logorante: gli Stati Uniti hanno avuto bisogno di arruolare moltissime persone, questo significa essere meno selettivi. Molti di quelli che sono partiti non erano preparati psicologicamente e quindi anche più facilmente vittime del Ptsd”.

Oggi qual è la sua vita?
“Io non ho più la mia vita. Quella è finita in Iraq: la vita non mi appartiene più. E' un tornare sempre là. Io parlo per due motivi: perché la gente sappia che non siamo mercenari assetati di soldi e perché non me frega più di niente. Oggi penso solo a sistemare la mia famiglia: è il mio scopo. Questa storia ha distrutto anche loro. Ma sono stanco: stanco di scappare, stanco di non avere più nulla. Quando avrò ottenuto il mio scopo, allora mi libererò di tutto. Non mi chieda come, sappia solo che sono stanco”.