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In libreria "Nella mente di un terrorista", riflessione sul radicalismo islamista

Luigi Zoja, a colloquio con Omar Bellicini, guida il lettore nella comprensione dei motivi che stanno alla radice della violenza degli estremisti musulmani

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E' in libreria Nella mente di un terrorista, Conversazione con Omar Bellicini, di Luigi Zoja.

Questo piccolo volume - pubblicato da Einaudi (pagg 96, euro 12) - è una riflessione psicoanalitica sul radicalismo: l'autore guida il lettore nella comprensione dei motivi profondi che sono alla radice dell'attuale violenza islamista. La particolarità è che si serve della teoria dell'inconscio per comprendere i meccanismi che spingono migliaia di giovani ad aderire alla lotta armata.

Il libro è nato da uno studio approfondito sull'Isis. Non si tratta, però, dell'analisi di slogan o cause geopolitiche, bensì di una riflessione sull'inconscio di chi si unisce alla lotta. Questo è stato possibile grazie alla psicologia analitica di Carl Gustav Jung, una tra le più significative tra le scuole di pensiero del Novecento. Si tratta di una teoria dell'inconscio che approfondisce il rapporto tra la società e le scelte individuali. 

Gli autori - Luigi Zoja è un'autorità di fama mondiale nel campo della psicanalisi junghiana. E' stato presidente dell'Associazione Internazionale di Psicologia Analitica e ha vinto due premi Gradiva. Omar Bellicini è un giornalista italo-algerino, esperto di comunicazione per l'Arma dei Carabinieri. Ha vissuto tra Italia e Nordafrica. (http://checkpoint.tgcom24.it/2017/09/ecco-cosa-si-nasconde-nella-mente-di-un-terrorista/)

Per i lettori di Tgcom ecco un estratto dal libro:

Capitolo 4 - World wild web
«La tecnologia è un tiranno invisibile».
Marshall McLuhan, “La sposa meccanica”; 1951

Sia la macchina del reclutamento jihadista che l'organizzazione degli attentati fanno leva sulle nuove opportunità della Rete, prediligendo social network come Twitter e Telegram. Si tratta di una modalità organizzativa che non ha ripercussioni sulla mentalità dei fondamentalisti o la tecnologia gioca un ruolo nell'evoluzione della loro personalità?
La tecnologia non è neutra, questo è certo. In determinate condizioni, gli effetti del digitale possono essere molto incisivi: il ricorso continuativo al web può anche favorire un pericoloso solipsismo, un estremo isolamento all'interno del proprio mondo mentale; e i soggetti così isolati, connessi al mondo solo attraverso mezzi audiovisivi o telematici, sono indubbiamente più fragili. C'è tutto un campo di studi sulle cosiddette “sindromi di ritiro”: si tratta di ragazzi, ma anche di individui meno giovani, che stentano a uscire dalla propria stanza e intrattengono con la realtà esterna un contatto puramente virtuale. Il fenomeno comincia a essere molto avvertito. Le faccio un esempio che non ha strettamente a che vedere con internet, ma la dice lunga sulle ripercussioni dei prodotti tecnologici. A Harvard è stata condotta una ricerca su un campione 16.000 anziani, sprovvisti di una vita sociale articolata come quella che caratterizza l'uomo medio nella fase lavorativa. Il campione è stato diviso in due parti: quelli che mantenevano contatti diretti con la comunità e quelli che affidavano il proprio sguardo sul mondo alla televisione, o in misura minore al computer. Il gruppo è stato seguito per anni e i risultati sono parsi sorprendenti: per chi seguiva la realtà prevalentemente in video la perdita di memoria, dovuta all'invecchiamento, avanzava a velocità doppia rispetto a chi manteneva rapporti diretti con le persone; non solo quelli che partecipavano a dibattiti filosofici, ma anche quelli che si limitavano a incontrare amici al bar. Si potrebbe pensare che gli individui sottoposti a un superiore flusso di informazioni, come quello assicurato dalla tv o dal computer, abbiano la mente più allenata. Però non è così, e ciò appare significativo anche entro i confini della presente discussione. C'è un indebolimento, che deriva dalla frequentazione di immagini che non sostituiscono davvero la realtà. C'è un effetto di illusione e di “superficializzazione” - che, sorprendentemente, corrisponde al fatto che uno schermo è bidimensionale, non ha profondità. Sono cambiamenti silenziosi, molto difficili da arginare. Pensi che le nuove tecnologie stanno alterando perfino una professione, apparentemente senza tempo, come quella dell'analista. Se non si oppone, le racconto un aneddoto.

Ci mancherebbe. L'ascolto volentieri.
Se le chiedessi qual è il primo strumento impiegato dallo psicoanalista per le sue valutazioni, probabilmente direbbe: «L'osservazione dei sogni». Sarebbe in buona misura corretto. Un vecchio consiglio che si dava allo Jung Institute di Zurigo, dove mi sono formato negli anni '70, era quello di suggerire ai pazienti di annotarseli su un taccuino, appena suonata la sveglia. Il motivo è che si tende a dimenticarli. È un'esperienza che abbiamo fatto tutti. Essendo legati a emozioni profonde, che confliggono con la quotidianità, i sogni svaporano in fretta. Fa comodo dimenticarli perché ci ricordano chi siamo, e tenerlo presente costituisce una “fatica psichica”. Ebbene, nelle terapie degli ultimi anni ho notato un mutamento, perché la maggior parte delle persone non tiene sul comodino un taccuino, ma uno smartphone. E quando si sveglia lo accende, magari proprio per appuntarsi l'ultimo sogno. Il guaio è che, in questo modo, il mondo esterno invade subito la psiche e tanti pazienti mi raccontano di non riuscire a fissare i ricordi prima che scompaiano, dopo la lettura dei messaggi su Facebook e Whatsapp. Avviene così uno spostamento artificiale da una dimensione interiore a una esterna. È uno spostamento operato dalla tecnologia. Questo per dire che la tecnica influenza il nostro modo di collegarci con la dimensione interiore molto più di quanto si pensi.

Peraltro, l'accelerazione del mondo è così rapida che ci confrontiamo con un nuovo fenomeno: la convivenza di persone con saperi tecnologici diversi. È un po' come se coabitassero, negli stessi anni e negli stessi spazi, epoche lontane. È un paradosso evolutivo che fa venire meno il significato stesso di “tempo”. Come se il progresso non avesse più un'accezione comune a tutti.
Proprio così. Ormai il decennio corrisponde, per certi versi, al secolo. La rivoluzione digitale ha modificato così tanti aspetti dell'esistenza, negli ultimi 20 anni, che ai più anziani sembra di essere stati catapultati in un'epoca diversa dalla propria. Già questo può provocare uno squilibrio, perché produce incomunicabilità fra le generazioni. Ma c'è anche di più: ci stiamo abituando a un orizzonte più ristretto. Mi aveva molto colpito un'inchiesta del settimanale tedesco Zeit, che parlava di un ritorno dell'Aids. La battaglia di prevenzione contro questa malattia era stata vinta, negli anni '90. Se non altro nei Paesi industrializzati. Ora dobbiamo constatare un suo ritorno, dovuto alla crescita dei contagi. Sono sempre di più i giovani che non seguono le precauzioni igieniche, perché - data la lunga incubazione del morbo - la potenziale malattia viene considerata lontana e il malato un altro da sé. Siamo così abituati ai tempi brevi che fatichiamo a proiettarci nel futuro.

Ha riscontrato altri problemi, oltre a questo?
Ne ho riscontrati parecchi. Tornando al mio campo, ci sono sempre più psicoterapie che si svolgono su Skype. Negli Stati Uniti, l'apertura di studi psicoanalitici telematici sta diventando una tendenza. Intendiamoci: può succedere di sentire un proprio paziente via etere, in caso di assenze prolungate, ma non definitive. Sarebbe traumatico cambiare analista per via di un soggiorno di lavoro in un'altra città. Ma deve trattarsi di un'eccezione, non certo della regola. Purtroppo, c'è chi inizia un'attività psicoterapeutica direttamente al computer, perché i pazienti più remunerativi si trovano in città come New York e Chicago, in cui l'affitto dei locali commerciali è elevatissimo e fa freddo per la maggior parte dell'anno. Quindi si preferisce aprire uno studio in Florida, in cui non c'è neanche la proverbiale poltroncina. Lo trovo scientificamente pericoloso e deontologicamente discutibile. In terapia è necessaria anche quella cosa che chiamiamo presenza, relazione col prossimo. L'origine del termine dice molto: nella Bibbia, il prossimo era tale in senso fisico. San Tommaso dice: «L'ho toccato con mano, allora c'è». È un elemento che non possiamo evitare. La tecnologia deforma questo aspetto primario dei rapporti.

La divagazione ci ha condotti a un punto che interessa direttamente la nostra indagine: mi riferisco alla virtualizzazione dei rapporti. Secondo lei, esiste un nesso fra quest'ultima e la propensione all'estremo sacrificio? La facilità con cui certi ragazzi rinunciano alla propria vita, in nome di una causa lontana dai propri interessi, non manca di sorprendere. Si avverte un pericoloso senso di straniamento.
Un rapporto fra i due piani esiste. La ricerca di un percorso di vita autentico è sempre stata l'aspirazione più difficile non solo da raggiungere, ma già da definire. Lo è ancora di più in solitudine. Ma oggi si impiglia in infinite nuove difficoltà: a causa della velocizzazione di tutti i processi della quotidianità, non abbiamo più il tempo per soffermarci sulle cose e sulle idee. Lo suggeriscono gli studi che mettono in relazione psicoanalisi e neuroscienze. L'abitudine sempre più frequente a internet e all'uso delle chat fa sì che le reazioni diventino molto veloci e questo tende ad attenuare la dimensione morale nelle risposte. Una ricerca americana si è fatta tentare da una quantificazione, sostenendo che ci vogliono almeno otto secondi per dare una reazione che includa una componente morale. Volgarmente, diremmo che è difficile ragionare in maniera ponderata sotto i dieci secondi. Si tratta di parametri che mi lasciano perplesso, perché sembrano mossi da un'eccessiva ansia di misurazione, ma c'è senz'altro del vero: la virtualità riduce i filtri. Ci rende più vulnerabili alle suggestioni. Paradossalmente, la tecnica dà più spazio alla componente animale e istintiva delle nostre reazioni; e la toglie a quella umana e riflessiva.

Una vulnerabilità che l'Isis ha percepito e sfruttato, se è vero che ha investito molti dei suoi ricavi nella produzione di filmati propagandistici destinati al web. Secondo fonti di intelligence, lo Stato islamico ha fatto ricorso a tecnici cinematografici e persino a esperti di videogiochi per rendere più accattivanti i suoi messaggi. Pare che a Raqqa, nell'Iraq settentrionale, sia nato un vero e proprio centro di produzione.
Non mi sorprende. Gli addetti alla comunicazione dell'Isis mettono in Rete dei video che sembrano pensati per Guerre Stellari. Non hanno nulla a che vedere con l'ostentata povertà, non solo stilistica, dei messaggi di Bin Laden. Del resto, era un mondo diverso e serviva una propaganda diversa. Il leader di Al-Qaeda, in un certo senso, tentava ancora di evocare un tipo di musulmano ascetico. Cercava di bilanciare il messaggio postmoderno - il video destinato alle televisioni, soprattutto occidentali - con una immagine da saggio delle origini: sfondo e abbigliamento essenziali, parole non affrettate né isteriche. Le basti un aneddoto: nell'autunno 2001 abitavo negli Stati Uniti, e ricordo che tutti rimanevano incollati al televisore in attesa dei suoi comunicati. Poi ci fu una autocensura dei canali televisivi, proprio perché si constatava che, in parte, i messaggi raggiungevano lo scopo voluto. Ebbene, alcune pazienti - americane bianche di classe media, certo non simpatizzanti per il terrorismo - cominciarono a riferire, con imbarazzo, di sogni in cui Bin Laden appariva come uomo affascinante. Come oggetto di desiderio. Rappresentava un maschile essenziale, fuori dal tempo e dai condizionamenti della società dell'apparenza: era il contrario dei loro mariti. La sua figura corrispondeva, insomma, a un archetipo, che non può mai essere eliminato del tutto. Malgrado, a livello cosciente, fossero convinte del contrario, per loro Bin Laden conservava un'aura sia etica sia estetica. Cercava di presentarsi come un guru e parzialmente ci riusciva. Oggi, le esigenze individuali sono cambiate con il mutare del contesto, e neppure l'Isis si affida al caso. I destinatari di video, tweet e quant'altro vengono studiati accuratamente. Chi produce contenuti di questo tipo sa benissimo che il loro fruitore ha la stessa mentalità di chi guarda, per l'appunto, le saghe stellari di Hollywood, e che non si tratta di un lettore assiduo di Immanuel Kant o Bertrand Russell. Bin Laden raggiungeva l'inconscio dell'americano medio. L'ISIS cerca e intercetta gli occidentali più fragili e gli immigrati incolti, pieni di frustrazioni.

Non a caso la strategia dell'Isis è quella di puntare su cani sciolti, che portino lo scompiglio nei Paesi considerati nemici, con pochi mezzi e poco sforzo. Non si tratta quasi mai di persone con una lunga militanza nell'organizzazione, ma di figure ai margini della società che vengono istigate a compiere atti terroristici di cui l'Isis si intesta successivamente la paternità. Siamo di fronte, insomma, a un inedito franchising criminale, in cui la comunicazione tramite i social si rivela importante. Può dirci qualcosa in più sui pericoli che si annidano in questi nuovi strumenti di condivisione?
Partiamo da un presupposto: questo non è un problema specifico dell'Islam o comunque di una religione. Ha trovato nei conflitti dell'Islam un tragico sbocco, ma non si tratta di un fenomeno originato da quest'ultimo, quanto dall'alienazione della società postmoderna. La psicologia di questi attentatori non mi sembra molto diversa da quella del giovane americano che ha fatto una strage alla prima di un film di Batman, travestito da uno dei suoi antagonisti. Lo abbiamo già specificato: il terrorismo e il crimine pescano nel vuoto di riferimenti che caratterizza i giovani di cui parliamo. Ci troviamo di fronte a vite così prive di significato che necessitano di un momento di gloria. È il movente per cui questi ragazzi ammazzano un po' di persone e poi si ammazzano a loro volta o si fanno ammazzare. Il contesto fa poca differenza. La sensazione di esistere non è consegnata dalla vita ma dalla morte. Per un occidentale può sembrare roba da Medioevo, invece è una novità del XXI secolo. Dal punto di vista psicoanalitico e delle emozioni profonde si sentono vivi, almeno per un attimo. L'Islam, la religione, la mentalità e gli arcaismi vengono dopo. Questa è una società iper-ricca, iper-tecnologica e iper-sperduta. L'uso acritico dei social network non ha certo aiutato, potenziando le illusioni e di conseguenza le frustrazioni.

Religione sì, religione no: il dubbio rimane. Da un lato si ha l'impressione che la religione non c'entri, che sia un contenitore in cui riversare un disagio che potrebbe assumere qualsiasi altra forma in condizioni storiche diverse. Da un altro punto di vista è chiaro, invece, che gli aspetti religiosi incidono, perché l'Islam si presta a forti contrapposizioni identitarie, favorite da concetti come quello di umma : la comunità di mutuo soccorso dei credenti musulmani. È un'idea che rinsalda il legame fra i suoi membri, ma allo stesso tempo esclude chi ne è fuori.
È verissimo. Ma si tratta di un principio di aggregazione che non appartiene solo alla teologia islamica. L'ebraismo ha un'idea di comunità religiosa ancora più esclusiva. Il cristianesimo insiste sull'immagine del Corpus Christi come unione mistica tra fedeli. L'unico modello radicalmente alternativo è, come abbiamo detto, il consumismo che somministra piaceri individuali, ma non forma una comunità dei consumatori. Il consumo può metterli in relazione, ma per lo più in senso negativo, competitivo: io vesto Armani e spero di far più colpo di te che vesti Versace. È in questo contesto che la fede si manifesta come nostalgia nei confronti di una socialità scomparsa. L'Islam si propone così come l'opzione più credibile, essendo una religione che non viene vissuta all'acqua di rose come il cristianesimo occidentale. Ad ogni modo, il problema è infinitamente più complesso. Parliamo di un tema che chiama in causa una grande religione, ma anche le difficoltà dei Paesi in via di sviluppo e quelli delle periferie urbane occidentali. E le nuove tecnologie di cui stiamo parlando.

In un saggio, pubblicato in Italia da Raffaello Cortina editore (Come il velo è diventato musulmano), Bruno Nassim Aboudrar, professore di estetica all'università Paris-III, pone l'accento sull'impatto dirompente che ha avuto la circolazione delle immagini digitali su una tradizione fondamentalmente iconoclasta come quella islamica. Anche in questo caso internet è sul banco degli imputati. Cosa ne pensa?
È una prospettiva molto interessante. Da qualche anno a questa parte abbiamo raggiunto una nuova frontiera della comunicazione. Prima lo stimolo della propaganda politica o commerciale poteva essere pervasivo, ma restava discontinuo. Ora le nuove tecnologie hanno portato a un bombardamento di contenuti senza soluzione di continuità, soprattutto di quelli a carattere visuale. Si tratta di messaggi con un oggetto spesso semplificato e quasi sempre allusivo, che contengono una chiave interpretativa prefabbricata. Pretendono di essere i “video-clip di Dio”. In un contesto simile, è evidente che lo spirito critico risulti sempre più affievolito, a danno dell'indipendenza di giudizio. Immagino che una tradizione come quella islamica, meno avvezza all'analisi di informazioni che passano attraverso l'immagine, viva con difficoltà ancora maggiore questa transizione e si dimostri più incerta nell'individuazione di eventuali distorsioni. È incredibile come la tecnologia possa rafforzare gli arcaismi, in modo diretto ma profondo.

Per certi versi, l'assenza di canali di comunicazione diretta, che caratterizzava il Mondo prima della rivoluzione digitale, favoriva una maggiore integrazione delle persone, in generale, e degli immigranti, in particolare. Era un incentivo all'inserimento nella comunità di destinazione, perché si faticava a mantenere un contatto con la realtà d'origine e l'accettazione del nuovo diventava una necessità. Adesso, con strumenti come Facebook, il migrante può illudersi di restare ancorato alla comunità di partenza, pur trovandosi in un luogo geograficamente diverso da quello di partenza. Il paradosso non la preoccupa?
In parte sì. Mai la definizione «cittadini del mondo» ha avuto maggiore operatività. Peccato che questo mondo corrisponda a un immaginario riprodotto in maniera kitsch e assolutamente artificiale. Sia i migranti effettivi sia quelli mediatici non rimangono vincolati alla cultura di partenza, aspetto che potrebbe non essere del tutto negativo. Creano piuttosto un'immagine falsata della propria tradizione, che viene distorta e mitizzata. La vicinanza fisica, che permetterebbe una conoscenza reciproca compiuta con il Paese ospitante, resta così sospesa, in favore di una illusoria permanenza virtuale nei luoghi di origine. In questo modo, crescono le diffidenze invece dell'integrazione. La globalizzazione ha unificato i costumi di popoli lontani e ci aspetteremmo che questo riduca i sospetti reciproci. Ma ciò non avviene. La postmodernità è fatta anche di nuovi processi, che mobilitano la parte paranoica della psiche.

Questa incapacità di adattamento al nuovo non può certo rassicurarci.
L'inquietudine è comprensibile, ma tenga conto che non si tratta di dinamiche scontate. Il nostro corpo è lo stesso che avevamo 20.000 anni fa: è stato modellato dall'evoluzione per vivere in piccoli gruppi. Il nostro sistema nervoso, che può certo modificarsi, ma in migliaia di anni, non ha avuto il tempo per adattarsi all'evoluzione urbana e tanto meno alla società virtuale. Nelle comunità poco numerose si può entrare più facilmente in risonanza con gli entusiasmi o le paure degli altri, consolidando così la propria funzione sociale. La cultura e il progresso tecnico hanno invece prodotto innaturali concentrazioni di individui, che sono agli antipodi di questo assetto originario e possono anche moltiplicare gli impulsi distruttivi. Internet è uno di questi agglomerati. Il problema è questo: un individuo isolato e anonimo è un individuo artificiale.

Quali possono essere le conseguenze di una simile artificialità?
Le conseguenze possono essere molte. Penso a quanto accaduto in Cina e in Corea del Sud, che hanno vissuto uno sviluppo tecnologico travolgente, subendo delle ripercussioni anche di carattere culturale e psicologico. Non a caso, sono Paesi in cui è altissimo l'indice delle dipendenze telematiche: un numero considerevole di ragazzi non si stacca mai dalla Rete e entra in uno stato di ansia quando si trova costretto ad allontanarsene. È una condizione che può alterare sensibilmente la qualità della vita ed è all'attenzione degli studi psicologici più recenti. Naturalmente, il sistema sociale dell'Estremo Oriente è diverso da quello islamico, ma la nascita di questo genere di difficoltà la dice lunga sugli effetti collaterali di scatti eccessivamente rapidi, in termini di tecnologia diffusa. La dipendenza telematica è solo uno dei possibili esiti. All'uscio c'è anche una disperazione aggressivo-distruttiva. Come il fanatismo.