Mosca vorrebbe approfittare dell'apertura americana per trasformare l'eventuale accordo in una vittoria da sbandierare in patria. Tra le varie questioni, però, il capo del Cremlino deve affrontare anche una crescente lotta all'interno delle élite russe
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In Alaska l'unica cosa di cui non si discuterà seriamente è di una pace in Ucraina. Di una pace definitiva, quantomeno. Donald Trump e Vladimir Putin hanno spinto per l'incontro di Ferragosto per motivi molto diversi. Il presidente americano vuole aprire alla Russia fin dal suo primo mandato, ha mire economiciste un po' contrarie alla parabola imperiale degli Stati Uniti e, soprattutto, ha fretta di lucidare la propria fama di "pacificatore mondiale". Nella beatitudine di chi, per deferenza, urla di volerlo candidare al Nobel per la Pace. Vanagloria a parte, anche il tycoon sa benissimo che il colloquio non sarà che l'ultimo giro di valzer di un ballo ancora lungo. E infatti ha parlato di "probabilità del 25% che l'incontro fallisca" e ha aperto a un vertice trilaterale anche con Volodymyr Zelensky per provare a fare ulteriori passi.
Dall'altro lato del tavolo, Putin ha da tempo ormai consapevolezza della volontà americana di congelare il conflitto. E tenta di approfittarne, sfruttando l'approccio più accondiscendente dell'amministrazione Trump, che ha deciso di parlamentare col Cremlino. Per questo motivo, i russi sono intenzionati a sfruttare l'occasione irripetibile per alzare le loro richieste e trasformare l'eventuale accordo in una vittoria da sbandierare in patria. Le ombre russe sulla pace vanno però oltre la politica estera e si allungano a partire dalle lotte interne alle élite della Federazione. Una questione decisiva che Putin non può ignorare perché si è inasprita rispetto a maggio, quando ne avevamo parlato.
Iniziamo col debunking, come dicono gli anglosassoni. Cioè col disinnescare la propaganda dei due leader. Secondo media inglesi come il The Telegraph, l'idea di Trump per convincere Putin ad accettare un cessate il fuoco è di offrire alla Russia terre rare dall'Alaska. Niente di più strampalato, per diversi motivi. Il primo: Mosca non ha bisogno di alcuna risorsa mineraria, naturale o energetica che sia. Anzi, vende grano e idrocarburi in grande quantità e sotto costo alla cooperante Cina, la quale tra l'altro è ampiamente provvista di terre rare. Il secondo: gli Usa hanno fame di terre rare per non arretrare nella sfida tecnologica con Pechino. Il terzo: Stati Uniti e Russia si vogliono preparare alla futura competizione per il predominio dell'Artico, in cui lo scioglimento sempre più veloce dei ghiacci aprirà nei prossimi decenni nuove rotte commerciali e sfide geopolitiche.
Mettiamo subito le cose in chiaro, o almeno proviamoci. Putin ha ribadito fino allo sfinimento di volere garanzie assolute sul fatto che l'Ucraina sarà smilitarizzata e che non entrerà nella Nato. Ma questa è propaganda, perlopiù. Al di là delle parole, la Nato è già ampiamente presente in Ucraina con funzionari e tecnici, e non ha intenzione di andarsene. Questo è un primo ostacolo reale al raggiungimento di un'intesa tra Mosca e Washington. Il fatto che gli statunitensi non accetteranno di andare via dall'Ucraina è stato confermato anche dalla firma dell'accordo con l'Ucraina sulle terre rare, che si rivelerà decisivo come avevamo anticipato mesi fa su Tgcom24. Sottoscrivere questa intesa prima del colloquio Trump-Putin ha svelato le carte. Un ulteriore impedimento riguarda le pretese territoriali: i russi vogliono una parte d'Ucraina, Kiev ovviamente non vuole cedere neanche un centimetro. Anche in questo caso, però, la reale questione va oltre la conquista materiale, perché il Cremlino controllava già di fatto quella porzione (il Donbass) che, dopo tre anni e mezzo di guerra, non è riuscita neanche a occupare nella sua interezza. Sul campo, insomma, Mosca non ha vinto.
Come può quindi Putin sventolare una vittoria davanti alla popolazione, storicamente pronta a rovesciare il regime in caso di umiliazione all'estero? Sul piano militare non può, sul piano strategico neanche perché si sta consegnando alla Cina. L'unica possibilità, in questo momento, è dettare condizioni nell'incontro con Trump, in modo da far vedere che la Russia è temuta e forte perfino dalla superpotenza globale. E poco importa se l'intento degli Usa è di corteggiare Mosca per staccarla da Pechino. Ma questa è un'impalcatura fragile, dalla quale Mosca non può scendere per non apparire sconfitta. La guerra dunque proseguirà, con intensità variabile, qualunque sarà la conclusione del summit in Alaska.
Il sistema politico della Russia post-sovietica è stato plasmato inevitabilmente intorno a Vladimir Putin, il quale in questo senso è più assimilabile al centro di un cerchio piuttosto che al vertice di una piramide del potere. Una sorta di arbitro, più che uno zar, l'elemento decisivo che garantisce l'equilibrio tra le varie dirigenze del Paese. Agli apparati dello Stato ha detto di non interferire con gli affari (anche sporchi) degli oligarchi. Agli oligarchi ha detto di non intervenire nelle questioni politiche. Questi due gruppi sono però molti divisi al loro interno e hanno dato vita a diverse fazioni. Mettendo a dura prova la leadership di Putin.
Mentre le sanzioni occidentali colpiscono (ma non affondano) l'economia russa e le difese ucraine continuano a reggere, le fazioni dirigenziali della Federazione fanno conti e manovre per prosperare in un futuro tanto incerto. Il loro obiettivo è duplice: proteggere i profitti e i privilegi ottenuti dopo lo scoppio la guerra e deviare la responsabilità dei crescenti costi umani e finanziari sulle spalle di Putin. Il presidente russo, da parte sua, teme che la disunione delle élite e l'ansia per il futuro del Paese possano minare la coesione del regime. Per contrastare questa tendenza, il Cremlino ha introdotto meccanismi legali senza precedenti per la redistribuzione della ricchezza sotto la bandiera della sicurezza nazionale, "sottraendola" a coloro sospettati anche di minima slealtà o di legami con l'Occidente e "ridistribuendola" a individui meno competenti, ma sostenitori di Putin. Ciò pone i gruppi di potere nel cosiddetto "dilemma del prigioniero in stile russo", in cui la strategia più sicura è quella di ostentare una lealtà esagerata, indebolendo silenziosamente i rivali.
Putin ha cercato di fare della guerra in Ucraina il fiore all'occhiello del suo quarto di secolo al potere. Dopo tre anni di combattimenti, non può più rischiare che il sistema politico da lui garantito non lo protegga dalle conseguenze di questa sua scommessa. All'interno della classe dirigente russa, è un segreto di Pulcinella che il conflitto abbia avuto un costo atroce. Sebbene il governo russo non renda più pubblici i numeri delle vittime, stime indipendenti della Bbc e di Mediazona suggeriscono che almeno 165mila soldati russi siano stati uccisi fino a luglio 2025. La piattaforma di intelligence open source Oryx ha documentato la perdita di oltre 22mila veicoli e attrezzature militari russe, oltre a miliardi di danni causati dagli attacchi dei droni ucraini e dalle sanzioni occidentali. Qualcuno, alla fine, dovrà assumersi la responsabilità politica di tutto questo. In un sistema democratico, Putin sarebbe il bersaglio più ovvio. Ma in Russia, il sistema è stato progettato per proteggerlo in quanto capo e arbitro. La sua spinta alla sopravvivenza politica (e forse fisica) si allinea con l'interesse storico delle élite nel preservarlo proprio come mediatore centrale tra fazioni in competizione. Eppure la guerra ha trasformato quel mediatore in una minaccia per molti di coloro che un tempo credevano nella sua leadership.
Dal punto di vista degli Stati Uniti, la sfida è garantire che queste dinamiche non diventino un ostacolo alla fine della guerra tra Russia e Ucraina. Per raggiungere questo obiettivo, gli apparati americani dovrebbe continuare a suscitare ansia nel governo e nella leadership industriale della Russia per i costi della guerra e per l'eventuale pace. I decisori statunitensi dovrebbero segnalare che l'attribuzione delle responsabilità per l'invasione sarà mirata, piuttosto che collettiva o indiscriminata. Che, cioè, indipendentemente da come finirà la guerra, Washington continuerà a sanzionare i suoi artefici, offrendo al contempo l'amnistia ai gruppi di potere che hanno preso le distanze dallo sforzo bellico. Putin, al riparo dai costi politici e personali della guerra, difficilmente lascerà mai l'incarico a causa delle pressioni internazionali. Ma le élite russe sono più pragmatiche riguardo al futuro delle relazioni con l'Occidente. L'approccio americano non causerebbe quindi una defezione di massa da parte delle élite, ma rafforzerebbe gli incentivi per i funzionari governativi di livello inferiore e i dirigenti aziendali a tutelare le proprie posizioni e a disimpegnarsi "silenziosamente" da una guerra che considerano sempre più impossibile da vincere.