Il presidente russo deve affrontare le pressioni interne da parte di fazioni divise su guerra e trattative: un "partito della pace" e un gruppo di dirigenti ancora più "a destra". Lo scontro fra la narrativa ufficiale e l'estremismo "libero" su Telegram
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Vladimir Putin si è deciso a parlare con Donald Trump per avviare negoziati "veri" con l'Ucraina. Dalle nostre parti la chiamata tra i due presidenti è stata celebrata come una notizia inaspettata e promettente per un futuro di pace. Senza escludere che si possa trattare dell'ennesima mossa retorica per prendere tempo e proseguire lo stallo del conflitto. In Russia però ci sono altri fattori che influiscono sulla politica estera del Cremlino: l'opinione interna dei russi profondi (sempre più stanca), un "partito della pace" (tutt'altro che neutralista) e un gruppo di oligarchi e dirigenti più "a destra" del presidente stesso. Li chiamano i "turbo-patriottici". Con Putin in mezzo a fare da arbitro, più fulcro di una ragnatela che vertice di una piramide. Intanto sempre più giovani, cioè quella fetta anagrafica da mandare al fronte, si informano su Telegram invece che dalla televisione o la radio come i loro genitori e nonni, uniche due fonti di informazione lontano dalle metropoli. E sul social russo la retorica si fa decisamente più estremista, soprattutto nell'opposizione a qualunque compromesso coi "fratelli traditori" ucraini. Il che rappresenta un'ulteriore grande incognita per il Cremlino.
Quando l'Italia faceva ancora le guerre, si diceva: "Taci, il nemico ti ascolta". Tempi infausti, ma complementari a quelli odierni in Russia. I media ufficiali e i giornali ripropongono la retorica del Cremlino ed evitano di fornire notizie demoralizzanti o troppo negative riguardo l'operazione militare speciale in Ucraina. La propaganda governativa interna ha finora dipinto la difesa "esterna" della patria russa in Ucraina, come contro Napoleone e i nazisti, come necessaria a contenere l'offensiva dell'Occidente euro-americano. Adesso le cose sono però un po' cambiate. Lo stop all'avanzata della Nato tramite il Paese invaso viene data per acquisita. Serve un'impostazione che convincesse migliaia di giovani soldati a trasferirsi al confine con la Finlandia, per proteggere il fianco in comune con la Nato ed evitare una "seconda Ucraina". Serve tranquillizzare la sempre più ampia fetta di popolazione stanca dei sacrifici imposti dalla guerra. Serve un disgelo con Europa e Stati Uniti per aprire i mercati russi anche verso Ovest, evitando che la Cina si pappi tutto il meglio che Mosca ha da offrire (idrocarburi, grano e materie prime) ma a prezzo scontato e a rate.
Iniziamo col dire che la "pace" in Russia non la vuole nessuno. Non per come la intendiamo noi, almeno. Col termine "partito della pace" (Партия мира, "Partiya mira") in Russia si intende un gruppo di politici, oligarchi e decisori che vogliono riaprire parzialmente all'Occidente per evitare di finire preda della Cina, vogliono un cessate il fuoco con Kiev (sempre a vantaggio di Mosca, ovviamente) e l'introduzione di una nuova versione degli accordi di Minsk. Non si tratta affatto di "occidentalisti", come spesso sono stati descritti qui da noi, ma sempre e comunque di patrioti che però propongono una ricetta meno estrema rispetto ai cosiddetti "statalisti" duri e puri. Tra le loro fila troviamo un nome sorprendente, a testimonianza di quanto non esiste un partito "contro" la guerra in Russia: Dmitry Peskov. Proprio lui, il portavoce più violento che leggiamo sui media, fedelissimo di Putin. Ma anche Vladimir Medinsky, ministro della Cultura e capo negoziatore inviato dal presidente stesso a fare gli interessi di Mosca nelle trattative. Allora il cerchio si chiude: Putin stesso ha necessità di dare l'impressione di volere la pace. Cioè di sostenere un ordine multipolare a guida russa ma cooperante con altre potenze, in opposizione all'idea degli statalisti che solo una svolta ancora più dura potrà riportare la Russia alla grandezza imperiale perduta.
Per lo stesso ragionamento, se proprio non la "vogliono", la guerra in Russia la giustificano quasi tutti. È stato l'estremo tentativo di "smascherare il bluff occidentale", con gli Usa manovratori da remoto di un'avanzata della Nato contro la Russia. Propaganda contro propaganda. "Colombe" per la pace contro "falchi" per la guerra. Lo scontro pubblico tra le due fazioni è esploso quando Medinsky e Peskov hanno iniziato a fare pressioni per la conclusione "al più presto possibile" di accordi di pace a condizioni che vadano bene un po' per tutti. Il punto più criticato riguarda la proposta dei "pacifisti" sullo status della Crimea, che resterebbe parte della Russia per "soli" 25 anni. Non per sempre. "Non faremo alcuna concessione, il signor Medinsky ha commesso un errore", ha affermato uno di quelli che vogliono la guerra come unica via per primeggiare nel mondo. Uno che conosciamo bene: Ramzan Kadyrov, leader paramilitare della Cecenia russa e generale molto influente in ambito militare, soprattutto nel bacio caucasico dal quale l'esercito russo ha pescato a piene mani per rimpolpare le truppe inviate in Ucraina. Su canali Telegram interventisti la retorica si fa ancora più violenta nei confronti di altri dirigenti della Federazione. Peskov in primis, il quale - dicono i "turbo-patriottici" - "sotto Stalin sarebbe già stato castrato" per aver proposto un compromesso con gli ucraini.