Speciale Il conflitto in Medioriente
L'ANALISI DEL DISCORSO

La "grande minaccia" contro il Grande Israele, il senso dell'intervento di Netanyahu all'Onu

La strategia dello Stato ebraico impone di rilanciare la normalizzazione con le monarchie arabe del Golfo e di aumentare la profondità difensiva contro i nemici circostanti. Ma dietro le parole del premier israeliano c'è anche altro

di Maurizio Perriello
26 Set 2025 - 17:44
 © Ansa

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"The curse", letteralmente "la maledizione". È questo il titolo della mappa del Medioriente che Benjamin Netanyahu ha mostrato (di nuovo) all'Assemblea generale dell'Onu, indicando che la maggiore minaccia per la regione è la rete terroristico-militare costruita dall'Iran intorno a Israele. Iraq, Siria, Yemen, Striscia di Gaza: la cartina colora di rosso i nemici dello Stato ebraico e veicola anche un messaggio di "vittoria totale" possibile, o comunque "in corso", vista l'offensiva contro i palestinesi (anche in Cisgiordania) e l'estromissione del regime di Assad da Damasco. Dietro la propaganda di Netanyahu c'è però un progetto concreto che si sovrappone a gran parte della mappa mostrata alle Nazioni Unite: il progetto del Grande Israele.

L'intervento del primo ministro israeliano rivela i due pilastri della strategia del Paese:

  • rilanciare la normalizzazione con le monarchie arabe del Golfo;
  • aumentare la profondità difensiva contro i nemici circostanti.

Questo secondo principio spiega bene passaggi come quello in cui sostiene che "sarebbe folle uno Stato palestinese a un chilometro da Gerusalemme". Come spiega anche la preoccupazione esistenziale per la sopravvivenza della "rete dell'Iran" che vuole stritolare lo Stato ebraico, formata dagli agenti di prossimità di Teheran (Hamas, Hezbollah, Houthi, milizie siro-irachene).

Cos'è e cosa prevede il progetto del Grande Israele

 Molti riassumono il progetto del Grande Israele con l'espressione "dal fiume al mare", cioè riferendosi al controllo del territorio che va dalla costa mediterranea alla Valle del Giordano. Dunque alla conquista di Gaza, Cisgiordania e anche di pezzi di Libano, Siria e Giordania. In sostanza la Terra Promessa descritta nelle Sacre Scritture, nel solco di quel millenarismo che informa la parabola israeliana nella sua parte militare e comunicativa. Ma gli obiettivi egemonici dello Stato ebraico si spingono ben oltre i confini dettati dai testi religiosi. Ecci comprendono anche Iraq e la totalità della Siria, nel rispetto del principio geopolitico della profondità difensiva. In pratica si conquista una fascia di territorio tra sé e gli avversari in funzione di cuscinetto, per combattere le guerre fuori di casa, sul "pianerottolo" potremmo dire, tenendo la minaccia lontana dal cuore della nazione. Il progetto si spinge ancora oltre la strategia nella misura in cui Israele auspica che l'intera regione araba diventi una propria zona di influenza. Le stesse identiche parole sono state pronunciate dall'emiro del Qatar, ultimo "nuovo" Paese ad aver subìto un attacco da parte dello Stato ebraico il 9 settembre.

Israele "esagera" perché vede gli Usa indeboliti

 Si discute da mesi sulla sproporzione della reazione israeliana ai fatti del 7 ottobre 2023, ma in pochi casi viene sottolineato l'impulso principale che ha spinto il Paese ad accanirsi così sulla popolazione palestinese. Esattamente come Russia e Cina, anche Israele ha approfittato della maggiore debolezza e stanchezza degli Stati Uniti, non più disposti a sobbarcarsi la gestione militare dell'intero pianeta e desiderosi di disimpegnarsi dai due conflitti in corso. Il governo Netanyahu ha ignorato pressoché tutte le richieste di de-escalation partite da Washington perché conscio di una profonda divisione all'interno dell'amministrazione americana, con apparati come il Pentagono intenzionati a proseguire nel sostegno materiale e militare e altri - come il Dipartimento di Stato o la presidenza - molto più cauti. Lo stesso Pentagono, a dimostrazione di ciò, partecipò al bombardamento dei siti nucleari iraniani nonostante Donald Trump avesse chiesto esplicitamente di evitare l'operazione. Il tutto nella cornice di fratture sociali interne che minacciano scenari da guerra civile, acuiti dall'uccisione del volto emergente della nuova destra Charlie Kirk.

La necessità di Israele di essere la potenza del Medioriente

 In quanto alleato di primissimo piano degli Usa - condizione che impedisce alle province europee di opporsi in maniera concreta alla condotta israeliana - lo Stato ebraico condivide con Washington un altro principio strategico, indispensabile per entrambi i Paesi: impedire che qualsiasi nazione o collettività si imponga come egemone nella regione. La stessa identica strategia che vale per Europa e Asia, tanto per dire. Per riuscirci e restare indispensabile agli egemoni americani, Israele deve essere considerato la maggiore potenza del Medioriente. Deve incutere timore negli avversari e senso di protezione nei potenziali alleati, in primis Arabia Saudita ed emirati del Golfo. Col maxi attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, questa reputazione è entrata profondamente in crisi ed è peggiorata a causa delle stragi di civili compiute nella Striscia. Su questa reputazione si fondano gli Accordi di Abramo, indispensabili per Israele per mantenere la presa sull'intera area. Non bastano le testate nucleari: in un periodo in cui gli Usa perdono appiglio sui fronti caldi del pianeta, il governo Netanyahu (già traballante per questioni politiche e per le divisioni interne al Paese) si gioca il tutto per tutto.

Il progetto di una "Nato araba"

 A disturbare il sonno dei dirigenti israeliani c'è anche il progetto di una sorta di "Nato araba", rilanciato sempre più spesso di recente dall'Egitto. Anche l'Arabia Saudita ha approvato la possibilità che siano gli stessi Stati arabi a garantire la propria sicurezza. I limiti dell'iniziativa iniziano però con una semplice domanda: chi dovrebbe guidare questa alleanza? Le divergenze e le frizioni fra i Paesi del Medioriente sono secolari e servirebbe una forza super partes, o meglio un egemone, che si ponga alla guida della macchina securitaria. Gli Stati Uniti potrebbero e vorrebbero, se non fossero così stanchi. Israele vorrebbe fortemente, ma mantenendo l'intera responsabilità militare, relegando i Paesi arabi a "satelliti". Circostanze molto poco probabili, che però daranno adito a ulteriori tensioni nei prossimi mesi.

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