L'APPROFONDIMENTO

Israele contro Iran, ecco perché il cambio di regime potrebbe essere una trappola (soprattutto per gli Usa)

I motivi per cui un rovesciamento della Repubblica Islamica non sarebbe la soluzione preferita da nessuno sono vari. A partire dall'assenza di piani sul "dopo" e dalla necessità di un'invasione

di Maurizio Perriello
20 Giu 2025 - 03:02
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Strategia e tattica sono cose diverse. La strategia di Israele impone di annullare la minaccia nucleare dell'Iran e, in generale, renderlo incapace di minacciare lo stesso Stato ebraico e i Paesi arabi del Golfo. La tattica è il mezzo usato per raggiungere tale scopo, e cioè i violenti attacchi ai siti atomici e ai vertici militari che il 13 giugno hanno inaugurato l'attuale escalation. Molti hanno sottolineato come invece la strategia israeliana puntasse soprattutto al cambio di regime in Iran, abbattendo la Repubblica Islamica e sostituendola con un governo fantoccio o comunque non avversario. Se Teheran dovesse ottenere la bomba atomica, ammesso che non ci sia già riuscita, cambierebbero gli equilibri geopolitici del Medioriente e del mondo intero. Diverrebbe di colpo inattaccabile, per paura dell'apocalisse. Se invece l'Iran dovesse restare nelle mani di ayatollah e pasdaran, Israele potrebbe proseguire la sua guerra con o senza l'aiuto degli Usa. I quali, nel frattempo, prendono tempo tentando di non essere trascinati dagli israeliani nel conflitto diretto contro la Persia sciita. Soprattutto nello scenario di un regime change.

Ciò non vuol ovviamente dire che non ci sarà o potrebbe esserci e che sia auspicabile o meno un avvicendamento alla guida politica dell'Iran. Israele e Usa potrebbero decidere di impegnarsi nel renderlo possibile, fermo restando l'elevato rischio di far piombare l'intera regione in un caos ancora maggiore. Al netto delle minacce e dei tuoni della guerra che proseguono, la de-escalation resta la soluzione più conforme agli interessi di ognuno degli attori coinvolti. Senza contare che un Iran incattivito potrebbe davvero dare sfogo a risvolti rischiosi e imprevedibili. La Repubblica Islamica esiste da una quarantina d'anni, l'Iran da un qualcosa come 27 secoli. Ciò che verrò dopo sarà sempre la Persia, imperiale e fiera, sotto una diversa forma politica.

La storia non felice dei cambi di regime in Medioriente

 I motivi per cui un cambio di regime in Iran, indotto dall'interno o dall'esterno, non sia la soluzione preferita dagli attori in gioco sono molteplici. Il primo è storico e riguarda la lezione della storia. Afghanistan, Siria, Libia, Iraq hanno visto negli ultimi due decenni la rimozione forzata (da attori esterni, Usa in primis in quanto superpotenza globale) dei governi autocratici o meno al potere. Il risultato è stato morte, devastazione e grande instabilità sociale, politica ed economica. I Paesi "liberati" hanno conosciuto il caos istituzionale e la proliferazione del terrorismo religioso e parastatale, finendo nelle grinfie di potenze straniere che hanno approfittato della situazione. Russia, Cina, Turchia e anche Iran, per l'appunto.

Un cambio di regime vuol dire invasione militare

 Nel caso in cui il cambio di regime venga favorito con successo dall'esterno, apre il complesso discorso sul "dopo". Non basta infatti far fuori la classe dirigente al potere. Per instaurare uno Stato fantoccio o comunque connivente, occorre inviare truppe e personale di ogni tipo sul campo. Per controllare i gangli nevralgici del Paese, per mantenere l'ordine, per evitare ritorsioni e reazioni, per gestire la transizione politica ed economica. Copioni già visti, con protagonisti noi occidentali. Israele non ha la forza terrestre per compiere tutto questo e, anche se l'avesse, le profonde lacerazioni interne (su tutte quella tra aschenaziti e arabi israeliani) e la parte di popolazione avversa al governo Netanyahu rendono pressoché impossibile una mobilitazione in tal senso. Dall'altro lato, gli Usa di Donald Trump non possono in alcun modo accettare di intervenire "stivali sul campo" ("boots on the ground") ancora una volta. La narrazione del tycoon ha sempre remato nella direzione esattamente opposta, predicando un disimpegno americano. Fermo restando che, al di là della propaganda, se Israele dovesse decidere di sferrare il colpo finale all'Iran, gli Stati Uniti non potrebbero far altro che seguire il suo più stretto alleato. Perché un Medioriente in cui Israele non sia egemone è impensabile per la strategia statunitense.

E se gli stessi iraniani rovesciassero il regime sciita?

 Questa è l'altra grande opzione profilata da molti analisti. Puntando sul fatto che circa il 20% della popolazione iraniana è favorevole al regime sciita, si è concluso che un colpo di Stato fosse fattibile, oltre che auspicabile. Peccato che quell'80% di iraniani scontenti (a dir poco) della teocrazia degli ayatollah e del violento controllo dei pasdaran non sia per niente un fronte unito. Al suo interno ci sono ad esempio i dissidenti monarchici, ai quali Israele ha dedicato un messaggio esplicito denominando l'operazione militare "Rising Lion", e che bramano il ritorno degli scià (i re, anzi, gli imperatori persiani). Ci sono poi i giovani, che in Iran sono giovani per davvero: il 70% della popolazione ha meno di 40 anni, l'età media è di 33. Ma anche al loro interno le ultime generazioni persiane vogliono cose diverse. La nasleh zed (il corrispettivo locale della nostra Generazione Z) e la generazione degli "anni turbolenti" (corrispondente alla Generazione Alpha americana) vogliono un Iran che non torni fantoccio dell'Occidente, dalle chiare velleità imperiali e faro della cultura orientale. Sembrerà incredibile, ma laggiù i giovanissimi pensano così, sono massimalisti e vogliono restare nei libri di storia. Un fenomeno che prolifera almeno dagli Anni Quaranta, quando il filosofo Ahmad Fardid gli diede un nome: gharbzadegi, traducibile in "avversione all'Occidente". C'è poi il segmento anagrafico dei trenta-quarantenni. Anche loro si scagliano contro il regime sciita, ma per motivi diversi dai connazionali più giovani: avvertono il peso della fatica di essere sempre in scontro contro tutti, dopo anni di guerra in Siria (assieme ai russi) in difesa del regime di Damasco. La generazione precedente (degli Anni 1360, cioè gli Ottanta occidentali) ha invece visto e combattuto la guerra con l'Iraq, e non ha nessuna voglia di tornare a vivere tempi simili.

Dall'esercito ai missili, dalle navi agli aerei: arsenali a confronto tra Israele e Iran

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Più incognite che certezze

 Senza un piano preciso e già in svolgimento sul post-Repubblica Islamica, l'Iran cadrebbe dunque nel caos. Uno scenario che neanche Israele vorrebbe, figurarsi gli Stati Uniti. La guerra aperta con l'Iran può essere conclusa soltanto con un intervento parallelo degli Usa. In questo senso allo Stato ebraico converrebbe di più un Iran sempre sciita, ma indebolito. In coma, ma non morto. Un Iran che resti il socio di minoranza di quella oscura cooperazione con Cina e Russia, intenzionate come Usa e Israele a far sì che il programma nucleare di Teheran non porti alla costruzione dell'ordigno atomico. Una situazione complementare a quella dei satelliti iraniani che tanto hanno dato filo da torcere a Tel Aviv: Hamas, Hezbollah e Houthi. Non sconfitti del tutto, ma ridotti sensibilmente nelle loro capacità militari.

Neanche i Paesi arabi preferiscono il cambio di regime in Iran

 Nonostante l'opposizione sunniti-sciiti e nonostante siano intimoriti dall'Iran al punto di affidarsi all'ombrello protettivo di Israele, neanche le monarchie arabe del Golfo (sauditi compresi) vedono alla caduta dell'attuale regime sciita come a una garanzia di tempi migliori. Colpi di Stato, pilotati dall'interno o dall'esterno, per gli arabi della regione sono sinonimo di primavere arabe, guerre, rivoluzioni. Non è un caso infatti che, a differenze degli attacchi "telefonati" dell'aprile 2024, Giordania e Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti non abbiano partecipato alle operazioni aeree israeliane.

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