L'indagine condotta su 1.500 lavoratori rivela la persistenza di stereotipi e pregiudizi nei luoghi di lavoro. Solo il 37% delle imprese offre strumenti per gestire le diversità
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Gli stereotipi resistono e le discriminazioni sul lavoro continuano a proliferare, ma le aziende italiane faticano ancora a fornire risposte concrete. È il quadro che emerge dalla ricerca "Oltre le diversità: percezioni, esperienze e bisogni" condotta da Tack TMI Italy (branch italiana della società di Gi Group Holding specializzata in Training & Development) su un campione di 1.500 lavoratori occupati in Italia.
I test condotti nell'ambito della ricerca hanno confermato la persistenza di stereotipi radicati: il top manager è ancora immaginato come un uomo di mezza età caucasico, il magazziniere come un ragazzo giovane caucasico o straniero, mentre i ruoli di segreteria vengono associati alla donna giovane e quelli amministrativi alla "signora più senior".
Questi automatismi mentali si traducono in discriminazioni concrete che 9 lavoratori italiani su 10 dichiarano di aver osservato nei propri ambienti professionali, mentre il 28% - più di 1 su 4 - ammette di averle subite direttamente.
L'etnia emerge come il principale fattore di discriminazione secondo il 62% degli intervistati, seguita dall'orientamento sessuale (49%) e dalla disabilità (48%). Particolarmente significativo il dato sui lavoratori nati all'estero: 3 su 4 hanno subito episodi discriminatori.
Le differenze territoriali e settoriali sono evidenti: nel Nord Est e nel settore manifatturiero si concentrano maggiormente gli stereotipi verso i lavoratori stranieri, spesso percepiti come meno collaborativi o rispettosi delle regole aziendali.
Quando però si analizzano le testimonianze dirette di chi ha vissuto discriminazioni, il quadro cambia: le cause più frequenti sono il genere (14%), l'età (14%) e l'aspetto fisico (10%), con episodi segnalati soprattutto da donne e under 35.
Il dato più allarmante riguarda l'inadeguatezza della risposta aziendale. Il 64% degli intervistati si riconosce nell'affermazione "tante aziende parlano di programmi di diversità e inclusione, ma non fanno niente per i lavoratori come me". Solo il 37% conferma l'esistenza di strumenti concreti per gestire le tensioni legate alle diversità nella propria azienda.
Le differenze dimensionali sono evidenti: mentre solo il 30% delle piccole imprese (sotto i 50 dipendenti) offre strumenti per gestire le diversità, la percentuale sale al 41% nelle medie imprese (50-500 dipendenti) e al 47% nelle grandi organizzazioni.
La ricerca evidenzia come la soddisfazione lavorativa non dipenda più solo da retribuzione e work-life balance, ma anche dal sentirsi riconosciuti nella propria unicità e dall'allineamento con i valori aziendali - fondamentale per il 93% del campione.
Solo il 21% dei lavoratori ha partecipato a iniziative di sensibilizzazione sulla diversità. Il 29% degli intervistati identifica nelle dinamiche generazionali la principale criticità da affrontare, subito dopo la diversità di genere
L'empatia - la capacità di "mettersi nei panni" degli altri - emerge come l'ambito su cui le persone ritengono più utile ricevere formazione, insieme alla capacità di riconoscere e gestire pregiudizi e stereotipi. "C'è un legame forte tra quello che i lavoratori chiedono e le loro esperienze personali", conclude Vecchione. "Ma non basta solo sensibilizzare: bisogna cambiare davvero la cultura delle organizzazioni, per creare ambienti di lavoro più giusti, dove le persone stiano meglio e siano più coinvolte." La sfida è chiara: trasformare la diversità da slogan a realtà concreta, riconoscendone il valore umano e il potenziale di crescita e innovazione per le imprese italiane.