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Charlotte Matteini smonta la retorica su chi non vuole lavorare e denuncia un mercato fatto di abusi e irregolarità: "I posti tossici? Spesso si riconoscono già leggendo l’annuncio'"
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Almeno una volta alla settimana una nuova voce si leva da tv e giornali, ripetendo ormai come un mantra la solita accusa: gli italiani non hanno più voglia di lavorare. Ma è davvero così? E soprattutto: quali sono oggi le condizioni concrete che molti lavoratori devono affrontare? Charlotte Matteini, giornalista pubblicista dal 2016, firma per numerose testate, pecializzata nel debunking delle fake news, ha raccolto anni di inchieste e testimonianze nel suo primo libro "Gli italiani non hanno più voglia di lavorare (e hanno ragione)" (Cairo Editore, 208 pagine, 17 euro). Un’inchiesta che diventa anche una guida pratica per chi si affaccia al mercato del lavoro o si trova impantanato tra contratti irregolari e false promesse. Perché se gli italiani davvero non hanno più voglia di lavorare, forse un motivo c’è. La nostra intervista all'autrice del volume.
Il titolo del suo libro è provocatorio: "Gli italiani non hanno più voglia di lavorare (e hanno ragione)". Può spiegarci perché questa affermazione?
Dopo aver passato anni a leggere articoli sui "giovani (e non) che non hanno voglia di lavorare" ho voluto utilizzare lo stesso gancio comunicativo per fare il verso a una narrazione tossica che penso sia necessario smentire con fatti e dati alla mano. Ho scelto un titolo volutamente provocatorio che però è anche la perfetta sintesi di quello che credo sia il problema alla base del mercato del lavoro italiano: molte persone semplicemente hanno perso la voglia di lavorare a causa delle condizioni che spesso vengono proposte. Non solo salari bassi e ormai insufficienti a far fronte al costo della vita sempre più crescente, ma anche organizzazione del lavoro dalla mentalità novecentesca, tra straordinari che diventano ordinari e imposti di default, micromanagement e spesso abusi psicologici che arrivano a sfociare nel mobbing.
Come ha condotto la sua inchiesta? Quante storie ha raccolto?
La mia inchiesta è in realtà quella che potrei definire una collezione di un decennio di approfondimenti sul tema su ogni tipo di settore. Nel corso degli anni ho raccolto svariate centinaia di testimonianze di lavoratori della ristorazione, del turismo, della GDO, dei trasporti, di professionisti come architetti, veterinari, giornalisti, grafici e chi più ne ha più ne metta. Ogni settore che mi sono trovata ad analizzare puntualmente presentava dinamiche molto simili seppur i testimoni fossero di aziende e luoghi completamente differenti. A un certo punto, il fil rouge che accomunava le storture che moltissimi lavoratori di ogni settore subiscono ogni giorno è divenuto così evidente che ho voluto scrivere questo libro per mettere in fila tutti i pezzi e realizzare un racconto che da un lato potesse avere una valenza di inchiesta, ma dall’altro lato che avesse modo di diventare una sorta di manuale d’auto-aiuto per difendersi dai soprusi più diffusi e ricorrenti.
Qual è il caso di sfruttamento lavorativo che l'ha colpita di più durante le sue ricerche?
Di casi ce ne sono così tanti che sono in difficoltà a sceglierne uno. Uno dei filoni che mi è rimasto più impresso è sicuramente quello dello sfruttamento di giovani professionisti in settori come l’architettura o la medicina veterinaria. Si tende solitamente a pensare che lo sfruttamento riguardi solamente lavoratori che svolgono mansioni cosiddette "meno qualificate", invece riguarda tutti. Le condizioni degli architetti o dei medici veterinari, ma anche di altri professionisti come i giovani avvocati, sono decisamente indecenti se paragonate a quelle che invece vengono offerte a parità di mansione ed esperienza alle stesse figure all’estero. E no, non è il cuneo fiscale o il costo del lavoro la causa di tutto ciò, come si sente spesso dire. Ci sono Paesi come la Francia, la Germania o l’Olanda dove cuneo e costo del lavoro sono sul livello italiano, o perfino più alto, eppure i salari sono decisamente differenti. E le condizioni professionali, a livello di ambiente e organizzazione del lavoro, incomparabili.
Può raccontarci la storia più emblematica di precariato che ha documentato?
I casi peggiori credo di averli trovati nell’ambito GDO. Le maggiori catene di supermercati fanno grandissimo ricorso a contratti a tempo determinato, che utilizzano come una sorta di spada di Damocle per spingere il lavoratore a produrre di più e ad accettare qualsiasi tipo di richiesta nella speranza di riuscire a mantenere il posto di lavoro. Molto spesso nei grandi supermercati si viene assunti con contratti part-time verticali con clausole di flessibilità da 24 o 30 ore settimanali che poi diventano anche 50 o 60 ore, non sempre retribuite come straordinari, e i lavoratori si trovano a dover accettare i turni extra non stabiliti dal primo iniziale con preavvisi anche di meno di 24 ore, nonostante per legge questo non sarebbe possibile. Li si spreme fino all’ultima goccia per poi spesso lasciarne a casa la maggior parte. Il turn over è altissimo e il numero di stabilizzazioni è davvero basso se comparato alla mole di lavoratori che non viene alla fine assunta.
Quali sono le "false promesse" più ricorrenti che ha incontrato?
Più che di false promesse parlerei di manipolazioni vere e proprie. Faccio un esempio: moltissimi imprenditori del settore del turismo e della ristorazione propongono di default condizioni contrattuali che non rispettano minimamente le norme e il CCNL attualmente in vigore. Propongono contratti da 48 ore settimanali, ovvero con 8 ore di straordinario strutturale, e pretendono che molti dipendenti lavorino anche 60 o 70 ore a settimana, spesso senza riposo durante i picchi stagionali. E queste sono le condizioni “più decenti”, perché poi esiste l’iceberg del lavoro in nero o in grigio. Sono comunque condizioni illegittime, eppure sono così diffuse che molti lavoratori sono convinti che siano perfettamente legali.
Che differenza c'è tra quello che promettono i datori di lavoro e la realtà contrattuale?
La differenza è spesso abissale. In Italia, secondo l’ultimo rapporto annuale di vigilanza dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, abbiamo un’incidenza di irregolarità in materia giuslavoristica che supera il 70%. Su 4 imprese controllate, praticamente 3 risultano applicare condizioni contrattuali non regolari. E’ un dato spaventoso e pressoché inalterato negli ultimi anni. Come mai molti datori riescono a convincere i dipendenti che queste irregolarità proposte siano in realtà legali? Perché i CCNL e i manuali di diritto del lavoro sono molto complessi da leggere e moltissimi lavoratori sono purtroppo del tutto ignari dei reali diritti che spetterebbero loro.
Il recente referendum vedeva ben 4 quesiti relativi al lavoro ma non hanno smosso le coscienze. Perché questa indifferenza rispetto a problemi che invece riguarderebbero tutti e tutte?
L’indifferenza a mio avviso è frutto di due aspetti fondamentali: da un lato il referendum è stato politicizzato e reso un tema da tifo da stadio, per non parlare della propaganda e delle bufale assurde che sono circolate nei mesi. Dall’altro lato i referendum abrogativi hanno poco appeal perché i quesiti sono scritti in burocratese, difficilmente interpretabili dai più, e agiscono spesso su temi così tecnici, complessi e limitati nel raggio di azione, che le persone non si appassionano alla battaglia, soprattutto se la battaglia non li riguarda in prima persona. Nel caso dei referendum sul lavoro i quattro quesiti potevano essere un inizio, insomma un segnale da dare alla classe politica, ma sono stati percepiti come poco incisivi perché si limitavano sostanzialmente a porre una pezza su pochi aspetti in un Paese dove invece le cose da sistemare sarebbero moltissime. Perché questo è un Paese che avrebbe invece bisogno di una riforma globale del mercato del lavoro, una riforma che vada in direzione ostinata e contraria rispetto a quella intrapresa negli ultimi 20 anni.
Con quale spirito e quali accortezze bisogna allora presentarsi a un colloquio di lavoro?
A mio avviso l’accortezza maggiore è la preparazione. Ma non tanto la preparazione tecnica per la mansione, quella la do per scontata, quanto la preparazione proprio in materia di diritti e contratti. Arrivare preparati e coscienti delle norme che regolano i rapporti di lavoro aiuta moltissimo a evitare di incappare in aziende tossiche che poi si rivelano irrispettose dei diritti e delle tutele dei lavoratori e che quindi andrebbero a proporre condizioni indegne e irregolari. Anzi, la preparazione in questa materia aiuta anche a scartare direttamente alla lettura degli annunci le aziende che non valgono: perché ve lo assicuro, la puzza di bruciato al 99% si percepisce da lontano. Basta davvero solo leggere l’annuncio tra le righe. Sono profondamente convinta di una cosa: più i lavoratori inizieranno a essere davvero coscienti dei loro diritti e delle norme e più i datori di lavoro saranno costretti a cambiare mentalità e approccio se vorranno rimanere sul mercato. Perché senza lavoratori difficilmente si fa impresa e si produce profitto.