Dal rigore all'espansione (e ritorno): un decennio di politiche di bilancio
In poco più di un decennio, il valore delle manovre finanziarie italiane ha oscillato come uno yo-yo, passando dai 14,7 miliardi del governo Letta nel 2014 ai 47 miliardi del Conte I nel 2019, per poi ritornare ai 16 miliardi previsti per il 2026. Un'altalena che racconta non solo le scelte politiche dei diversi esecutivi, ma anche le profonde trasformazioni economiche e sociali che hanno attraversato il Paese.
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Il punto di partenza è sobrio. Nel 2014, con Enrico Letta a Palazzo Chigi, la manovra vale appena 14,7 miliardi. Eravamo ancora nell'onda lunga della crisi del debito sovrano: l'Europa chiedeva austerità, i margini erano strettissimi, le priorità si concentravano sul contenimento della spesa.
Il biennio Renzi ha segnato una svolta espansiva: 32 miliardi nel 2015 e 35,4 miliardi nel 2016. Erano gli anni del Jobs Act, del bonus 80 euro, degli investimenti in infrastrutture. Il governo provò a stimolare la crescita, sfidando - con prudenza - i vincoli europei.
La correzione arrivò con Paolo Gentiloni: 27 miliardi nel 2017 e 22,5 miliardi nel 2018. Si tornò a politiche più caute, in un contesto di ripresa fragile e conti pubblici ancora sotto osservazione.
Il 2019 ha rappresentato un punto di svolta. Il governo Conte I, sostenuto da Lega e Movimento 5 Stelle, varòla manovra più corposa dell'intero decennio: 47 miliardi di euro. Era l'anno di quota 100 per le pensioni, del reddito di cittadinanza, della flat tax per le partite Iva. Una politica espansiva che fece tremare Bruxelles e allargare il deficit. Il messaggio politico era chiaro: dopo anni di sacrifici, si inverte la rotta. Ma quella manovra monstre aprì un lungo braccio di ferro con la Commissione europea sui conti pubblici italiani.
La pandemia cambiò tutto. Nel 2020, con il secondo governo Conte, la manovra arrivò a valere 32 miliardi, ma erano solo una parte degli interventi straordinari. L'Europa sospese il Patto di Stabilità, i governi poterono spendere per sostenere economie e società in ginocchio. Il 2021 confermò questa fase: 40 miliardi in una manovra che dovette gestire la transizione verso la ripresa, mentre arrivavano i primi fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Manovre ancora robuste, giustificate dall'emergenza e dalla necessità di non spegnere gli aiuti troppo bruscamente.
Con Mario Draghi, nel 2022, la manovra si attestò sui 32 miliardi. L'emergenza sanitaria si era attenuata, ma era esplosa quella energetica: gran parte delle risorse andava a calmierare le bollette di famiglie e imprese.
Il primo anno del governo Meloni, il 2023, ha visto una manovra da 35 miliardi, ancora fortemente segnata dal caro energia. Ma è stato l'ultimo sussulto espansivo. Nel 2024 si è scesi a 24 miliardi. I vincoli sono tornati stringenti: il Patto di Stabilità europeo è stato riattivato, l'inflazione impone prudenza, con il debito pubblico italiano sopra il 140% del Pil.
L'evoluzione delle manovre racconta una storia fatta di cicli economici, vincoli esterni e scelte politiche. Le manovre più corpose coincidono con momenti di rottura: il tentativo riformista di Renzi, la sfida sovranista del Conte I, l'emergenza della pandemia. Ma il denominatore comune degli ultimi anni è chiaro: quando i margini si aprono, la politica italiana tende a spendere. Quando si chiudono – per pressione europea, per crisi del debito, per inflazione – si torna al rigore.
La domanda che resta aperta è se questa oscillazione sia inevitabile o se il Paese riuscirà a trovare una via più stabile, capace di coniugare crescita e sostenibilità dei conti senza sobbalzi. Per ora, la risposta è nel grafico: dal 2014 al 2026, una montagna russa da 14,7 a 47 miliardi e ritorno a 16. Una parabola che fotografa l'instabilità strutturale della finanza pubblica italiana, sospesa tra l'ambizione di fare politica economica espansiva e la realtà di un debito che non dà tregua.