Quasi 700mila ricoveri lontano da casa nel 2023, trend in crescita del 12% in un anno. Schillaci: "È il fallimento dell'uguaglianza"
Salgono sul treno con valigia e cartella clinica. Lasciano casa, famiglia, affetti per andare a curarsi a centinaia di chilometri di distanza. Sono le migliaia di italiani per i quali migrare è diventato l'unico modo per accedere a cure adeguate. La mobilità sanitaria in Italia vale ormai 5 miliardi di euro, con 668mila ricoveri fuori regione registrati nel 2023. Un fenomeno che penalizza tutti: i pazienti costretti a migrare, le regioni del Sud che si dissanguano economicamente, quelle del Nord che vedono esplodere le liste d'attesa. E mentre la sanità pubblica arranca, le strutture private accreditate fanno affari d'oro.
Il paradosso del Nord "Non ce la facciamo più". Michele de Pascale, presidente dell'Emilia-Romagna, non usa mezzi termini quando parla dell'emigrazione sanitaria con "La Stampa". Posizione simile quella del governatore lombardo Attilio Fontana: il fenomeno penalizza due volte le regioni settentrionali. Prima intasando le strutture sanitarie e facendo aumentare le liste d'attesa, poi dal punto di vista economico, perché il saldo attivo derivante dai rimborsi delle regioni di provenienza sarebbe un'illusione, non coprendo i costi reali delle prestazioni erogate.
Eppure i dati raccontano una storia diversa. Tra chi arriva e chi parte per curarsi altrove, l'Emilia-Romagna chiude con un saldo positivo di 387 milioni di euro, la Lombardia ne incassa 383, il Veneto 115. Dall'altra parte della bilancia, la Campania perde 211 milioni, la Calabria 191, la Sicilia 139. Un trasferimento netto di risorse dal Meridione al Settentrione che aggrava ulteriormente le disuguaglianze territoriali.
Non turismo sanitario, ma necessità Dai camici bianchi e dagli amministratori del Nord arriva spesso la stessa diagnosi: l'aumento riguarderebbe la "mobilità a medio-bassa complessità", visite specialistiche o interventi chirurgici di routine che si potrebbero ottenere anche vicino casa, se le strutture locali avessero conquistato la fiducia degli assistiti. Il sottotesto è chiaro: i meridionali si spostano per capriccio. Ma l'ultimo rapporto Agenas, l'Agenzia per i servizi sanitari regionali, ribalta questa narrazione. Dal 2019 al 2023 i ricoveri fuori regione non sono aumentati, ma leggermente diminuiti, passando da 707mila a poco più di 668mila. La spesa è rimasta sostanzialmente stabile, aumentando appena da 2,84 a 2,88 miliardi.
L'incremento riguarda esclusivamente la mobilità legata ai ricoveri per prestazioni ad alta complessità: oncoematologia, trapianti, cardiochirurgia, ortopedia avanzata. Interventi che richiedono un alto livello di professionalità e tecnologia, aumentati del 12% in un solo anno. Al contrario, la componente dovuta a prestazioni più semplici, fruibili anche nella propria regione, è diminuita nella stessa percentuale. La migrazione sanitaria insomma sarebbe spinta dalla necessità, non dalla ricerca del medico "più in vista".
Il vero vincitore: il settore privato Se tutti perdono qualcosa in questo sistema, c'è chi invece ci guadagna davvero. Come dice l'Agenas, non sono gli ospedali pubblici a beneficiare dei flussi migratori, ma le strutture private accreditate, che gestiscono quasi i tre quarti delle prestazioni ad alta complessità.
Il fenomeno della migrazione sanitaria sta diventando un vero business per i privati. Mentre la sanità pubblica fatica a reggere i carichi di lavoro, le strutture convenzionate prosperano intercettando i flussi più remunerativi. Per gli assistiti e per le regioni, sia del Nord sia del Sud, il saldo rimane negativo, nonostante le regioni di provenienza rimborsino le prestazioni fornite altrove.
L'ammissione del ministro: "Lo Stato ha rinunciato" "Quando un napoletano sale su un treno per farsi operare a Brescia o a Padova non è mobilità sanitaria. È l'ammissione che lo Stato ha rinunciato a garantire l'uguaglianza dei diritti". Le parole del ministro della Salute Orazio Schillaci fotografano senza giri di parole il fallimento del sistema sanitario nazionale nel garantire standard uniformi su tutto il territorio.
Schillaci ha anche richiamato le regioni inadempienti: servono più risorse e il governo ne ha aggiunte come non mai per il prossimo anno, ma questo non basta se vengono spese male, lasciate nei cassetti o dirottate a coprire i buchi di bilancio. Una critica che tocca un nervo scoperto: non è solo questione di fondi, ma di capacità gestionale e di scelte politiche che perpetuano le disuguaglianze.
Le cause del problema I malati che vanno a farsi curare anche a centinaia di chilometri di distanza lo fanno innanzitutto a causa del gap di dotazioni organiche e tecnologiche che da sempre separa il Sud dal resto del Paese. Un divario che il sistema di distribuzione delle risorse non aiuta a colmare. Il Fondo sanitario nazionale viene redistribuito tra le regioni pesando la popolazione in base soprattutto all'età, molto più avanzata nel Centro-Nord. Pesano poco o nulla le condizioni sociali e quelle dei servizi sanitari che non tengono il passo del resto della nazione. Un meccanismo perverso che premia chi è già avvantaggiato e condanna chi parte da una situazione di svantaggio.
Le possibili soluzioni Filippo Anelli, presidente dell'Ordine dei Medici, parte da un presupposto: la legge non consente di rifiutare una prestazione a un cittadino di un'altra regione. Ma questa libertà di scelta strangola le regioni del Sud, che si trovano a dover pagare prestazioni fuori regione aggravando la propria situazione economica. "Serve perequare strutture e personale con un intervento deciso dello Stato, prevedendo un finanziamento ad hoc per recuperare i divari che si sono creati". Anelli propone anche di invertire il flusso: anziché far migrare i pazienti, si potrebbero spostare i medici, "mettendo su una rete di servizi che porti le eccellenze e le competenze lì dove c'è bisogno, finché quell'ospedale non cresce sviluppando le competenze necessarie".
"Le regioni del Nord devono dare una mano a quelle del Sud, non portando via i loro pazienti ma aiutandole ad assisterli", rilancia il presidente dell'Emilia De Pascale, che annuncia a breve il primo protocollo d'intesa con la Calabria. Un Nord che si fa "tutor" della malandata sanità meridionale, in cerca di risorse ma soprattutto di competenze, non solo mediche ma anche gestionali.