Una escalation militare nel Golfo Persico colpirebbe petrolio, semiconduttori, automotive e shipping. Lo Stretto di Hormuz, arteria del 20% del commercio petrolifero mondiale, al centro delle preoccupazioni
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La guerra in Medio Oriente c'è già, ma se dovesse trasformarsi in un conflitto a lungo termine che coinvolge direttamente Israele, Iran e Stati Uniti, a pagarne le conseguenze non sarebbero solo i militari sui campi di battaglia. L'economia mondiale tremerebbe, e alcuni settori finirebbero letteralmente in ginocchio. Il motivo? Un piccolo tratto di mare largo appena 55 chilometri: lo Stretto di Hormuz, dove ogni giorno passano venti milioni di barili di petrolio. È il 20% di tutto il greggio che si muove sul pianeta.
Cosa succederebbe se un quinto del petrolio mondiale non riuscisse più ad arrivare a destinazione? È esattamente lo scenario che si profilerebbe se l'Iran decidesse di bloccare lo Stretto di Hormuz. Non stiamo parlando solo di benzina: anche un quinto del gas naturale liquefatto che alimenta le nostre case e fabbriche passa di lì.
I paesi asiatici sarebbero i primi a soffrire. Cina, India, Giappone e Corea del Sud dipendono da quel passaggio per il 69% del loro petrolio importato dal Golfo Persico. Quando a giugno gli israeliani hanno iniziato a bombardare l'Iran, il costo per trasportare una nave cisterna dalla regione alla Cina è schizzato del 24% in un solo giorno, arrivando a 1,67 dollari per barile. Era solo un assaggio.
La carenza di semiconduttori degli ultimi anni sembrerà nulla di grave di fronte a quello che potrebbe accadere. Taiwan e Corea del Sud, che producono tutti i chip più avanzati del mondo (quelli sotto i dieci nanometri), hanno bisogno di quantità enormi di energia per far funzionare le loro fabbriche. Senza petrolio e gas a prezzi accessibili, i costi di produzione andrebbero alle stelle.
I casi precedenti sono eloquenti e mostrano che, quando i chip scarseggiano, l'industria automobilistica va in crisi. Negli ultimi anni è costata 500 miliardi di dollari tra produzioni ferme e ordini cancellati. E pensare che entro il 2030 l'elettronica rappresenterà la metà del valore di un'auto nuova.
Le case automobilistiche vivrebbero un incubo. Da una parte, meno chip disponibili significherebbe ancora meno auto prodotte. Dall'altra, far arrivare i pezzi dall'Asia diventerebbe carissimo. Chi produce auto elettriche starebbe ancora peggio: hanno bisogno di molti più componenti elettronici di quelle tradizionali.
Il problema è che l'industria dell'auto funziona con il just-in-time: i pezzi arrivano giusto quando servono, senza giacenze. Pratico ed efficiente in teoria, ma se le navi non arrivano più, le fabbriche si fermano.
I capitani delle navi mercantili stanno già studiando le mappe. Se lo Stretto di Hormuz diventasse troppo pericoloso, dovrebbero fare il giro dell'Africa passando dal Capo di Buona Speranza. Significa tremila cinquecento miglia nautiche in più e oltre dieci giorni di viaggio. Come se non bastasse la crisi del Mar Rosso, che già costringe molte navi a evitare il Canale di Suez. Gli esperti marittimi sono chiari: meglio stare alla larga dalle acque iraniane se la situazione peggiora. Ma le rotte alternative costano una fortuna in carburante e tempo.
Alla fine, come sempre, a pagare saranno i consumatori. Quando i costi di trasporto aumentano, i prezzi nei negozi li seguono a ruota. Che si tratti del nuovo smartphone, della maglietta prodotta in Bangladesh o dell'elettrodomestico assemblato in Cina, tutto quello che viaggia per mare dall'Asia costerà di più. Le aziende, scottate dalle crisi passate, stanno già accumulando scorte per proteggersi. Ma anche questo costa, e il conto lo presenteranno ai clienti.
Trasportare merci in zona di guerra costa sempre di più da assicurare. I premi assicurativi per le navi che attraversano aree pericolose sono già saliti per la crisi del Mar Rosso. Se anche il Golfo Persico diventasse off-limits, alcune rotte potrebbero diventare economicamente insostenibili.
Arabia Saudita ed Emirati Arabi hanno costruito oleodotti che aggirano lo Stretto di Hormuz, ma possono trasportare solo 3,5 milioni di barili al giorno. Una goccia nel mare rispetto ai venti milioni che passano normalmente dallo Stretto.
Il rischio vero non è solo economico. Una guerra lunga nel Golfo Persico cambierebbe per sempre il modo in cui il mondo fa commercio. Le aziende sarebbero costrette a ripensare da capo le loro catene di fornitura, accelerando quel processo di "deglobalizzazione" che già vediamo all'orizzonte. Non è fantascienza: è quello che potrebbe succedere se le tensioni in Medio Oriente dovessero davvero esplodere. E stavolta non ci sarebbero vincitori, solo perdenti.