Giorgio Armani ha pianificato la continuità del suo impero già da anni, affidando il controllo a una fondazione, a famigliari e a uomini di fiducia. Voilà, nessuna cessione estera in vista
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Il gruppo Armani non sarà venduto a un colosso straniero e resterà indipendente. Questo non è un augurio o un’intenzione, ma una strategia già definita da Giorgio Armani ben prima della sua morte. Il fondatore della celebre maison ha creato una struttura societaria solida e protetta, affidando il controllo a una fondazione con poteri blindati e a un consiglio di amministrazione composto da familiari e fedelissimi. Il piano è complesso, articolato su più livelli, ma ha un obiettivo chiaro: garantire che il marchio rimanga autonomo, italiano e fedele ai suoi valori originari anche dopo la sua scomparsa. In un panorama della moda sempre più dominato da grandi gruppi internazionali, Armani rappresenta un’eccezione: un’azienda rimasta saldamente nelle mani del suo fondatore e ora proiettata nel futuro secondo le sue direttive.
Il disegno organizzativo che regola oggi l’eredità del gruppo Armani nasce da una precisa volontà: garantire stabilità, visione e indipendenza. Già nel 2016, lo stilista aveva istituito la Fondazione Giorgio Armani, definendone ruolo, struttura e finalità. Questo ente è oggi il perno del sistema che governa l’azienda: non un semplice strumento testamentario, ma un vero e proprio soggetto giuridico, con poteri di controllo e indirizzo. Una scelta lungimirante, maturata dopo anni di riflessione e pianificazione, che dimostra quanto Armani abbia voluto proteggere l’integrità del suo marchio anche oltre la propria presenza.
Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, la fondazione è proprietaria del 12,6% del capitale sociale, ma detiene una classe speciale di azioni che le conferisce un peso superiore in assemblea. Il resto delle quote è in mano a familiari e collaboratori, secondo uno schema calibrato per evitare concentrazioni esterne e garantire un equilibrio interno solido e duraturo. Inoltre, la fondazione ha uno statuto che vincola i suoi membri al rispetto della visione del fondatore, impedendo vendite, fusioni o scelte strategiche non coerenti con la filosofia del brand.
L’assetto societario del gruppo Armani è articolato su diverse categorie di azioni, con diritti di voto variabili. Le azioni di categoria A (30% del capitale) e F (10%) valgono rispettivamente 1,33 e 3 voti in assemblea. Il risultato è una distribuzione del potere che favorisce la governance interna, attribuendo a questi soci il 53% dei voti totali, pur possedendo solo il 40% del capitale. Questo sistema, poco comune in Italia, è stato pensato per evitare che investitori puramente finanziari possano influenzare in modo decisivo le scelte aziendali.
Un altro elemento chiave è la composizione del consiglio di amministrazione, formato da otto membri, di cui cinque sono nominati direttamente dai soci A e F. Questo meccanismo consente ai soggetti designati da Giorgio Armani – familiari e fedelissimi – di mantenere la direzione strategica dell’azienda, anche in presenza di investitori di minoranza. L’obiettivo è quello di preservare la visione imprenditoriale e creativa del fondatore, evitando derive finanziarie o industriali lontane dallo spirito originario del marchio.
Al momento, non è stato ancora reso noto ufficialmente chi riceverà le azioni A e F, ma secondo le indiscrezioni riportate da più fonti, è altamente probabile che queste quote chiave andranno a soggetti molto vicini al fondatore: membri della sua famiglia e collaboratori storici. In particolare, i nomi che circolano con maggiore insistenza sono quelli di Rosanna Armani, Leo Dell’Orco, Andrea Camerana e Silvana e Roberta Armani. Tuttavia, solo con l’apertura del testamento sarà possibile conoscere nel dettaglio la distribuzione effettiva e definitiva delle azioni con potere di voto rafforzato.
La squadra indicata per guidare l’azienda dopo la morte del fondatore include figure di fiducia, sia familiari che manager esperti, scelte per garantire continuità, stabilità e coerenza strategica:
La governance blindata nasce anche per proteggere l’indipendenza del gruppo da tentativi di acquisizione da parte di grandi conglomerati internazionali come LVMH, Kering o Richemont. Una possibilità reale, considerando il valore del marchio Armani e il consolidato interesse del lusso globale verso i brand italiani. Negli ultimi anni, molte maison storiche italiane sono passate sotto il controllo di gruppi stranieri, generando spesso preoccupazioni sul mantenimento dell’identità e della produzione in Italia. Ma Giorgio Armani è stato sempre contrario a questa prospettiva. In più occasioni ha dichiarato: "Non voglio che la mia azienda venga venduta a stranieri dopo la mia morte. Non ho lavorato una vita per vederla finire in mani che non la comprendono". Il meccanismo societario ora in vigore rende questo scenario molto improbabile, se non impossibile. Il sistema delle azioni a voto potenziato e la fondazione vigilante costituiscono una barriera quasi invalicabile contro acquisizioni ostili.
Il problema della successione in assenza di eredi diretti ha toccato anche altri grandi imprenditori. Alcuni hanno scelto la strada della vendita, altri quella della fondazione o della continuità manageriale:
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Secondo Repubblica, il valore stimato del gruppo Armani supera i 13 miliardi di euro. La società è solida, con un fatturato annuale superiore ai 2 miliardi e un patrimonio netto in costante crescita. La decisione di restare indipendente rafforza l’identità del brand, aumentandone il valore reputazionale nel lungo termine. La combinazione di marchi (Giorgio Armani, Emporio, Armani Exchange) permette una copertura trasversale del mercato, dal lusso più alto al prêt-à-porter accessibile. Il posizionamento unico dell’azienda e l’assenza di debiti rilevanti la rendono una delle realtà più attrattive del settore. Tuttavia, l’architettura societaria progettata da Giorgio Armani limita drasticamente ogni ipotesi di acquisizione, proteggendo così il valore costruito in oltre cinquant’anni di attività.
La Fondazione Giorgio Armani ha lo scopo statutario di mantenere l’integrità della società, promuovere la cultura, l’arte, la moda e il design, e proteggere l’archivio creativo del fondatore. Ha sede a Milano, all’interno dell’Armani/Silos, e può nominare propri rappresentanti negli organi di governance della società. Il consiglio della fondazione è composto da cinque membri, alcuni dei quali siedono anche nel board aziendale, rendendo l’interconnessione tra i due enti centrale per la gestione futura. Lo statuto vieta esplicitamente qualsiasi operazione di cessione delle quote a soggetti esterni non approvati all’unanimità dal consiglio, rendendo la fondazione una vera "cassaforte" del pensiero armaniano.
Non tutti i grandi marchi della moda hanno scelto la fondazione. Alcuni sono entrati in borsa, come Moncler o Salvatore Ferragamo, altri si sono affidati a holding private o gruppi multinazionali. La famiglia Missoni, per esempio, ha ceduto una quota a un fondo di investimento, pur restando coinvolta nella gestione. In altri casi, come quello di Valentino, il marchio è stato venduto a investitori stranieri (Katar), segnando un passaggio generazionale non interno ma basato su logiche finanziarie. Questi modelli, seppur legittimi, presentano rischi legati alla perdita di identità del marchio e alla discontinuità nella linea creativa.
Il patto di famiglia è uno strumento giuridico che consente di trasferire l’azienda a uno o più eredi senza passare per una divisione successoria. Serve a evitare liti tra parenti e a garantire la continuità. Non sempre è applicabile, ma in Italia viene usato con sempre maggiore frequenza, anche nelle PMI. È uno strumento efficace anche nel settore moda, dove la reputazione del brand è legata al cognome. Alcuni esperti suggeriscono di combinarlo con fondazioni o trust, per evitare frammentazioni del capitale e per tutelare la visione strategica del fondatore. Armani, con la sua fondazione, ha superato persino questo strumento, disegnando una successione ancora più strutturata e inespugnabile.
La questione eredità coinvolge anche il mondo tecnologico. Imprenditori come Jeff Bezos, Reed Hastings o Howard Schultz hanno predisposto piani precisi per le loro aziende, affidando quote a fondazioni, enti filantropici o manager interni. In Silicon Valley, dove la cultura della start-up spesso coincide con la leadership del fondatore, il tema della successione è sempre più presente. Alcuni modelli prevedono la creazione di dual class shares, come nel caso di Meta/Facebook, altri la creazione di family office capaci di influenzare le scelte anche dopo la morte del fondatore. La lezione di Armani, pur nel mondo della moda, potrebbe diventare un riferimento anche per altri settori ad alto tasso di personalità.