Armani, le società dello stilista
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Ottomila dipendenti, seicentocinquanta negozi nel mondo e una successione già pianificata. Cosa succede al gruppo dopo la morte del fondatore che ha sempre rifiutato la quotazione in borsa
di Giuliana Grimaldi© Ufficio stampa
Giorgio Armani è morto lasciando un gruppo da 2,3 miliardi di ricavi, 8.700 dipendenti e 650 negozi nel mondo. Soprattutto, ha lasciato un'azienda completamente italiana in un settore dove due terzi dei marchi storici sono finiti in mani straniere.
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Dietro il mito di Re Giorgio c'è una macchina industriale formidabile: 8.700 persone che lavorano ogni giorno per tenere accese le luci di 650 boutique sparse per il pianeta e creare la magia di ogni passerella. I conti del 2024 raccontano di un gruppo da 2,3 miliardi di fatturato e quasi 600 milioni parcheggiati in banca. Non male per un giovane creativo che aveva iniziato disegnando le vetrine da Rinascente. Gli investimenti non si sono mai fermati: 332 milioni l'anno scorso, più del doppio del 2023. Segno che Armani, fino all'ultimo, credeva nel futuro della sua creatura.
Non solo giacche dal taglio impeccabile e vestiti d'alta moda commercializzati sotto le diverse etichette: Giorgio Armani, Armani Privé, Emporio Armani, EA7 Emporio Armani, A|X Armani Exchange. L'ultimo colpo, l'acquisto ad agosto de La Capannina di Forte dei Marmi, ha ricordato a tutti come gli interessi del fondatore fossero allargati ad alberghi, ristoranti, locali: un ecosistema del lusso che va ben oltre l'abbigliamento. Perché il vero lusso oggi non è più solo quello che si indossa, ma quello che si vive.
Dal 2016 Giorgio aveva le idee chiare su cosa sarebbe successo dopo di lui. Niente improvvisazioni: una fondazione con le carte in regola e le persone giuste al posto giusto. Pantaleo Dell'Orco, il braccio destro di sempre, e Irving Bellotti di Rothschild, quello che gli ha sempre tenuto a posto i conti. Al timone operativo dovrebbe salire Andrea Camerana, il nipote. Sangue del suo sangue, ma preparato per il mestiere. La fondazione ha regole ferree: niente dividendi da distribuire, tutto quello che entra viene rimesso in gioco. Una garanzia che il marchio continuerà a investire su se stesso, proprio come ha sempre fatto il fondatore.
Proprio nel 2016 Armani scriveva: "Ho deciso di creare la Fondazione Giorgio Armani per realizzare progetti di utilità pubblica e sociale e per assicurare che gli assetti di governo del Gruppo Armani si mantengano stabili nel tempo, rispettosi e coerenti con alcuni principi che mi stanno particolarmente a cuore e che da sempre ispirano la mia attività di designer e imprenditore. Questi principi fondanti sono basati su: autonomia e indipendenza, un approccio etico alla gestione con integrità e correttezza, un’attenzione all’innovazione e all’eccellenza, priorità assoluta allo sviluppo continuo del marchio Armani sostenuto da adeguati investimenti, una gestione finanziaria prudente ed equilibrata, un limitato ricorso all’indebitamento e un cauto approccio alle acquisizioni".
La tentazione di una crescita fuori dal suo controllo
Una scelta che oggi, guardando i numeri, sembra quella di un visionario. In un settore dove due terzi dei brand storici italiani sono finiti in mani straniere, Armani resta uno dei pochissimi completamente nostri. Insieme a Prada (che ha appena comprato Versace), Dolce & Gabbana e pochi altri, rappresenta l'ultimo presidio dell'italianità nella moda mondiale.
I soldi, i negozi, i dipendenti: tutto questo passerà alla fondazione. Ma la vera eredità di Giorgio Armani è un'altra: aver dimostrato che si può conquistare il mondo senza vendersi l'anima. Che l'indipendenza non è un lusso che ci si può permettere, ma una necessità per chi vuole lasciare il segno. In un'epoca dove tutto si compra e si vende, dove i marchi saltano di mano come figurine, Armani ha tenuto duro. E ha vinto. La sua storia è la storia di un'Italia che sa ancora fare la differenza, quando vuole.