Violenza di genere, i dati sui centri antiviolenza
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In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, che si celebra il 25 novembre, Tgcom24 ha visitato due strutture: SVS DAD (Donna Aiuta Donna) e la Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate
di Giorgia Argiolas© Tgcom24
Un salotto accogliente e colorato che affaccia su un giardino. Fiori, coperte ricamate e una tovaglia con la scritta cucita "Io sono mia". È quanto vede una donna quando entra nel centro antiviolenza SVS DAD (Donna Aiuta Donna), a Milano. È invece circondata da piante mentre sta per arrivare alla porta di ingresso della Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate, sempre nel capoluogo lombardo, sulla quale campeggia un cartello con la scritta: "Potremmo parlare di violenza, ma parliamo di libertà". Chissà cosa pensa mentre varca quelle soglie in cerca di aiuto, in preda alla disperazione o al dubbio di vivere una relazione sbagliata, mentre cerca la speranza e la libertà cui si accennava. In occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, che si celebra il 25 novembre, Tgcom24 si è addentrato nella realtà dei centri antiviolenza, visitando i due citati, entrambi parte della Rete antiviolenza del Comune di Milano, e ha incontrato chi quotidianamente aiuta le donne. Ecco, dunque, come funzionano i centri e perché è importante rivolgersi a personale specializzato in situazioni di violenza (che sia fisica, psicologica, sessuale o economica) e compiere il primo passo verso una nuova vita prima che sia troppo tardi.
Il centro antiviolenza SVS DAD, nato nel 1997, aiuta ogni anno circa 500 donne. Claudia Di Palma e Denise Milani, rispettivamente coordinatrice e responsabile dell'accoglienza del centro spiegano come avviene l'accesso. "Il canale prevalente è la chiamata: le donne trovano il numero online o vengono consigliate dal consultorio, dall’ospedale, dalle forze dell'ordine, dalle amiche. Alcune scrivono un'email", spiega Milani. Il centro è anche collegato al numero verde nazionale antiviolenza 1522. "Gli operatori indicano alcuni indirizzi in base alla zona indicata dalla donna e quest'ultima sceglie a chi rivolgersi", sottolinea Di Palma.
Dopo che la donna contatta il centro attraverso le modalità descritte, "le operatrici fissano un primo appuntamento di persona, che viene chiamato 'accoglienza'. Prima di tutto, ascoltano il suo racconto e, sulla base di questo, le dicono cosa hanno capito della situazione e se ritengono ci sia un rischio e di quale entità", prosegue Di Palma. "In casi molto pericolosi, capita le si dica che sarebbe meglio non tornasse a casa. Sentire una cosa del genere è spiazzante, anche perché spesso la donna non ha una percezione chiara del pericolo che sta correndo e, ovviamente, dover abbandonare di punto in bianco la sua casa non è così semplice, specialmente se ha figli. È sempre una situazione delicata. Si ragiona, dunque, su dove farla stare: principalmente, in case rifugio della rete antiviolenza del Comune ma è capitato anche di pagare qualche notte di albergo per definire poi come procedere", dichiara la coordinatrice.
Per tutte le altre situazioni "il centro offre gli aiuti necessari: l'ascolto, l'informazione - fornire alla donna le spiegazioni su quello che si può fare, sulla situazione che secondo le operatrici si trova a vivere, sui possibili rischi che corre -, l'accoglienza, poi il sostegno psicologico, la consulenza e l'assistenza legale. In una seconda fase, si possono aggiungere l'orientamento al lavoro - se, per esempio, la donna deve andare via di casa, non ha mai lavorato oppure ha scelto di lasciare la sua occupazione per stare con i figli - e quello abitativo. Tutti i servizi che ho elencato sono gratuiti. Per tutto il percorso, la donna viene seguita e non è mai lasciata sola. È importante dire che non si tratta di percorsi predeterminati, predefiniti. Possono durare sei mesi come tre anni. Sono fatti insieme alla donna, in base alle sue caratteristiche, ai suoi tempi, alle sue necessità, a quello che lei vuole. Infatti, nei centri antiviolenza vige il principio dell'autodeterminazione", specifica Di Palma. Infine, non è detto che dopo l'accoglienza, la donna sia subito pronta a proseguire il percorso: "Alcune fanno un primo colloquio e poi non tornano o, magari, lo fanno dopo un anno", aggiunge la coordinatrice.
La maggior parte delle donne seguite dal centro ha subito maltrattamenti. "Abbiamo anche casi di violenze sessuali (quando si tratta di episodi appena avvenuti e ci sono lesioni passano per la Clinica Mangiagalli) e stalking. La maggior parte delle violenze sessuali avviene nell'ambito di un contesto familiare o viene commessa da mariti, ex mariti, fidanzati, ex fidanzati. L'estraneo che fa una violenza per strada rappresenta la minima parte delle violenze sessuali", spiega Di Palma. L'età delle donne che si rivolgono al centro è abbastanza trasversale. "Da ragazze giovanissime a donne di oltre 60 anni, 62-65", chiarisce Milani, che poi lancia un allarme: "Negli ultimi anni, c'è stato un abbassamento dell'età in cui iniziano le relazioni violente e controllanti. Per questo, stiamo facendo sempre più sensibilizzazione nelle scuole e anche rivolte ai genitori".
Milani, che quotidianamente accoglie le prime richieste di aiuto, illustra quanto può essere difficile per una donna riconoscere la violenza: "Il processo di consapevolezza è lungo perché le relazioni maltrattanti sono relazioni. Non si tratta di un'aggressione su strada, che è un evento traumatico improvviso. Il maltrattamento si costruisce nel tempo. Quando iniziamo una relazione, lo facciamo perché troviamo qualcosa di bello nell'altro. Non è che l'uomo si presenta dicendo: 'Ciao, sono il maltrattante'. C'è una fase iniziale positiva, che porta a investire emotivamente. E quando si investe, è difficile ammettere che qualcosa non va. Per cui, quando si verifica il primo evento violento, una donna si trova disorientata perché è un qualcosa che è distante dal partner che aveva scelto. Partner che, di solito, periodicamente, torna carino e amorevole come all'inizio: questo è proprio il ciclo della violenza, come ci ha insegnato Lenore Walker. Oltre allo sgomento e all'incredulità, la donna si può trovare davanti a colpevolizzazioni da parte dell'uomo e a isolamento, perché piano piano è sempre più concentrata a far sì che la relazione, che è il proprio investimento, vada come aveva desiderato. È dunque veramente difficile per una donna, anche se arriva a denunciare, poi mantenere il punto".
Ciò che poi spinge le donne a rivolgersi al centro antiviolenza è "alcune volte l'esasperazione, altre il verificarsi di un intaccamento sui figli, altre ancora la sensibilizzazione, che può portare a una messa in discussione di se stesse e della relazione violenta. Inoltre, molte donne, ad esempio quelle mature, arrivano perché ormai 'non hanno più nulla da perdere' dato che, ad esempio, i figli sono diventati grandi. Una situazione che mette molto a rischio", chiosa la responsabile dell'accoglienza.
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La donna è pronta per concludere il percorso con il centro antiviolenza "quando vuole - dichiara Di Palma -. In genere, comunque, quando ha trovato una soluzione per essere autonoma".
Il centro antiviolenza Cadmi, nato nel 1986, ha aiutato oltre 36mila donne in difficoltà. Dispone di nove case rifugio. Dal 2021 a coordinarle è Siham Hibu. "Otto sono destinate all'ospitalità 'classica', dove offriamo protezione immediata alle donne che vivono una situazione di violenza attuale e imminente, una al progetto 'Un viaggio per la libertà', che, dal 2018, accoglie donne migranti che hanno subito violenza, dando loro la possibilità di elaborare il vissuto in un luogo sicuro e di intraprendere un progetto di autonomia. Tra le nove case, in un anno normalmente riusciamo a ospitare una ventina di donne, alcune con figli. In questo momento abbiamo cinque bambini. La maggior parte sono piccoli, ma abbiamo anche una ragazza adolescente. Negli ultimi due anni, l'età media delle donne è di 22 anni, si è abbassata tantissimo. Vengono da contesti per lo più familiari (famiglia d'origine o partner). I casi che seguiamo maggiormente sono violenza dal partner o maltrattamenti - racconta Hibu -. È tutto gratuito. Sosteniamo le donne con fondi regionali, comunali e che vengono da aziende o persone che credono nella nostra causa".
L'ingresso nelle case rifugio non è mai diretto. "Non siamo un pronto intervento. Si passa prima dal centro antiviolenza. Quando le colleghe dell'area accoglienza ritengono che una situazione sia molto pericolosa offrono la possibilità di accedere alle case rifugio. Dopo aver conosciuto la donna e spiegatole cosa vuol dire vivere in una casa rifugio, concordiamo assieme se sia il caso di intraprendere questo percorso. È lei a decidere", afferma la responsabile delle case rifugio Cadmi.
"Accedono alle case rifugio destinate all'ospitalità classica le donne che corrono un rischio veramente alto per la propria vita. Ma non solo. A volte ospitiamo anche ragazze molto giovani che vengono dal circuito di un maltrattamento familiare e hanno un bisogno importante di avere dei riferimenti di persone adulte diverse da quelle che hanno conosciuto fino a quel momento. Oppure donne in situazioni di violenza psicologica molto forte, che hanno bisogno di distanziarsi dalla situazione in cui la vivono per riconoscerla", continua Hibu.
"La segretezza è il cardine, il fulcro delle nostre case rifugio. Queste ultime sono delle case normali, dove le donne vivono sole. Noi operatrici non stiamo tutto il giorno con loro. Andiamo principalmente su appuntamento concordandolo rispetto ai loro bisogni e disponibilità per affiancarle e indirizzarle al meglio nella ricostruzione della loro vita. È quindi grazie alla segretezza dell'indirizzo che le donne riescono a tutelarsi da sole", sottolinea Hibu.
La quotidianità nelle case rifugio è "normalissima: le ragazze giovani vanno a scuola, lavorano, le donne che hanno bambini seguono i propri figli nella scuola, lavorano, imparano la lingua italiana, fanno dei corsi professionalizzanti. Noi le supportiamo in tutto - sia nelle faccende pratiche quotidiane (come la gestione della burocrazia) sia a livello emotivo -, senza mai sostituirci a loro", dice la responsabile delle case rifugio Cadmi. Nelle case, inoltre, la condivisione degli spazi diventa un sostegno reciproco: "Riconoscere che non sei l'unica, vedere altre donne che ce la stanno facendo, ti dà forza", evidenzia Hibu.
"Le donne delle case rifugio possono poi rivolgersi alle varie aree del nostro centro antiviolenza: l'area psicologica (la maggior parte sceglie di usufruire di questo servizio), l'area lavoro, l'area legale. Noi offriamo tutto quello che abbiamo al nostro interno, ma cerchiamo anche di indirizzare le donne fuori. Una volta finito il percorso, infatti, hanno bisogno di una rete al di fuori del centro antiviolenza e della casa rifugio – rimarca Hibu -. Per quanto riguarda i bambini, li aiutiamo nelle faccende pratiche. Non interveniamo nella genitorialità, ovviamente".
I progetti in media durano due anni. "Ci vuole tempo, il primo periodo è di adattamento alla nuova routine e soprattutto è quando si costruisce una relazione di fiducia con le operatrici. Fiducia che, a volte, arriva dopo tanto perché la storia di violenza spesso poi non permette alle donne di affidarsi facilmente alle persone con cui si interfacciano. Dopodiché, piano piano, si inizia nella quotidianità a riprogrammare la propria vita e a intraprendere un percorso di autonomia abitativa ed economica. E questo non si fa in un giorno né in sei mesi. Ad ogni modo, non decidiamo mai noi quando la donna finisce il suo percorso, è lei a rendersene conto in base al raggiungimento degli obiettivi che avevamo concordato insieme all'inizio del percorso", mette in chiaro Hibu.
"Facciamo tanta fatica a concludere i progetti non perché la donna non sia pronta ma perché l'abitare a Milano e dintorni è diventato impossibile. Le donne - e specialmente una mamma che ha uno stipendio unico e uno o più figli - hanno veramente difficoltà a raggiungere un'autonomia abitativa. Negli ultimi anni, ci abbiamo impiegato in media dagli 8 ai 14 mesi per trovare una casa", sostiene amareggiata la responsabile delle case rifugio Cadmi.
Altre criticità riguardano la burocrazia e i tempi della giustizia: "Le donne migranti devono aspettare tempi lunghi per ottenere i propri documenti. Per non parlare della lungaggine delle situazioni legali, soprattutto in ambito penale", continua Hibu. Per quanto riguarda le criticità vissute in prima persona dalle donne, l'addetta spiega che "inizialmente, si presentano momenti di difficoltà, però ne parliamo, le sosteniamo. Nel primo periodo, cerchiamo di stare tanto in contatto e in relazione con loro per non farle sentire sole".
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Claudia Di Palma
"Le donne si devono rivolgere ai centri antiviolenza, che fanno assolutamente la differenza. E, secondo me, non si è abbastanza informati sulla loro funzione e utilità. Spesso si dice alle donne: 'Dovete denunciare'. Sì, ma la denuncia da sola non basta. Le situazioni di violenza che vivono sono talmente complesse che è veramente necessario mettere in campo una rete di attori (operatrici, psicologhe, avvocati ecc.) e questo è quello che fa il centro antiviolenza. È una sorta di protezione, di barriera che tiene conto di tutti gli aspetti, anche delle difficoltà nella gestione dei figli. Perché spesso capita anche che se una donna non lavora, e quindi non può mantenere da sola i propri figli, resta nella relazione maltrattante", è l'appello di Di Palma.
"Il lavoro da fare è veramente tantissimo, bisogna proprio cambiare la cultura per riuscire a debellare questo fenomeno. Ecco perché è fondamentale fare degli interventi di sensibilizzazione nelle scuole, a partire dall'asilo nido. I bambini devono sentirsi liberi di esprimere le proprie emozioni. Ancora oggi si dice ai maschietti: 'Non piangere, non fare la femminuccia'. Stereotipi che diventano una gabbia per loro, perché in un periodo di fatica, di frustrazione preferiscono tirare un cazzotto alla porta, ad esempio, piuttosto che mettersi a piangere", conclude la coordinatrice di SVS DAD.
La prevenzione è fondamentale così come saper riconoscere le situazioni di estremo rischio. Le espone Milani: "Sicuramente, come è stato detto più volte da più figure e in più spazi, non bisogna mai andare all'ultimo appuntamento, soprattutto da sole. Un altro elemento che aumenta il rischio e il momento di maggiore attenzione è quello in cui una donna decide di separarsi o di interrompere la relazione perché questo determina una rottura rispetto a una routine che dà garanzia all'uomo del controllo e del mantenimento del potere. Abbiamo tanti casi di questo tipo".
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Denise Milani
Il messaggio conclusivo che arriva all'unisono è chiaro: "Se siete vittime di violenza, rivolgetevi ai centri". "Potete andare in quello più vicino a voi o in quello che preferite. È la strada giusta per poterne uscire", esorta Di Palma. Le fa eco Milani: "Fatelo, senza paura. In un centro antiviolenza si arriva senza impegno, per conoscere, informarsi. Non si è costrette a fare nulla. Quello che dico sempre alle donne quando arrivano qui è: 'Ciò che è importante è sapere, perché se si conosce si può scegliere consapevolmente, altrimenti si decide sulla base della paura".
"Si può uscire dalla violenza - è la rassicurazione conclusiva di Hibu -. Non abbiate timore di rompere il silenzio, di farvi supportare dai centri antiviolenza e da chi ne capisce perché le persone che abbiamo vicino spesso possono darci soltanto dei consigli ma non possono supportarci in maniera professionale e consapevole. Uscire dalla violenza è una scelta, la scelta più difficile ma è quella che ci porta verso la libertà. Non abbiate paura, non siete sole. Noi vi crediamo".