I dati contingenti mostrano una crescita ma anche segnali di rallentamento, come il calo dei profitti aziendali e l'aumento dei tassi di interesse. Il tutto nel mezzo della guerra dei dazi incarnata da Trump
di Maurizio Perriello© Afp
L'economia degli Stati Uniti mostra segnali contrastanti. Da un lato, il Pil è cresciuto più del previsto nel secondo trimestre, superando le aspettative e mostrando una discreta resilienza. Dall'altro, si registrano tuttavia anche segnali di rallentamento, come il calo dei profitti aziendali e l'aumento dei tassi di interesse che potrebbero influire sui bilanci delle famiglie e delle imprese. La disoccupazione resta bassa, ma proprio i tassi potrebbero avere un impatto negativo sul lavoro nel lungo termine.
L'espansione economica è dunque soltanto apparente, determinata soprattutto dal fatto che le aziende hanno ridotto le importazioni dopo aver accumulato scorte all'inizio dell'anno per mettersi al riparo dai dazi annunciati da Donald Trump. Il Prodotto interno lordo, che comprende tutti i beni e servizi di un Paese, ha registrato un balzo del 3% nel periodo aprile-giugno, in netta ripresa rispetto al -0,5% del primo trimestre, che ha rappresentato il primo calo trimestrale del Pil dal 2022. Come sottolineato dalla Cnn, quest'ultimo rapporto sul Pil statunitense è stato preso a modello di una valanga di notizie economiche che dovrebbero mostrare come consumatori e imprese stiano reagendo bene alla politica economica dell'amministrazione Trump. Tuttavia, l'iniziale frenesia degli acquisti per effetto delle tariffe doganali ha reso davvero arduo valutare la salute e la direzione di fondo del mercato americano e, in generale, della rete globale che vedono in Washington il punto di partenza e d'arrivo. L'accumulo e la vendita di scorte prima e dopo l'imposizione dei dazi trumpiani sembrano mascherare una debolezza di fondo nella parabola nazionale.
Nel primo trimestre, l'aumento delle importazioni ha avuto un impatto negativo sulla crescita economica. Questa tendenza si è però invertita nel secondo trimestre, poiché le aziende hanno attinto alle scorte esistenti anziché importare, incrementando a loro volta il Pil, che viene adeguato alle oscillazioni stagionali e all'inflazione. Dopo un'impennata del 38% da gennaio a marzo, le importazioni sono crollate del 30,2% nei tre mesi successivi. Questo ha contribuito in modo determinante alla crescita economica da aprile a giugno, se si considerano anche le esportazioni, che contribuiscono a loro volta al calcolo del Pil.
La Cnn ha poi riferito come i dettagli di fondo del rapporto sul Pil mostrino anche che consumatori e aziende non si sono del tutto tirati indietro di fronte all'incertezza generale. Risultato: gli indicatori hanno segnalato una crescita dell'economia, nonostante le debolezze strutturali. La confusione sta tutta qui. La spesa al consumo, che alimenta circa il 70% dell'economia statunitense, ha registrato una forte ripresa nel secondo trimestre, raggiungendo un tasso dell'1,4%, in rialzo rispetto allo 0,5% del primo trimestre. Tuttavia, sommati ai dati precedenti, questi risultati configurano i due trimestri di spesa più lenti dai tempi del Covid. Nel frattempo, le imprese hanno ridotto drasticamente la spesa nello stesso periodo, passando dal 10,3% all'1,9%, operando un aggiustamento rispetto a inizio 2025.
Secondo gli esperti, l'economia Usa non è ancora fuori pericolo e le cose potrebbero peggiorare. Un indicatore chiave della domanda di fondo, e cioè le vendite finali reali agli acquirenti privati nazionali, note anche come "Pil di base", ha rallentato nel secondo trimestre a un tasso annualizzato dell'1,2%. Si tratta del ritmo più debole dal quarto trimestre del 2022, in calo rispetto all'1,9% registrato a inizio 2025. Si può dire che i dati principali nascondono la reale performance dell'economia americana, che sta rallentando a causa dei dazi che incidono negativamente sull'attività. Stando alle previsioni, se l'andamento del Pil di base dovesse proseguire a questo ritmo, si prevede che la Federal Reserve subirà ancora più pressioni per abbassare i tassi a causa del rallentamento dell'economia.
Non è ovviamente tutta colpa solo dei dazi di Trump, sia chiaro. C'è comunque da dire che la politica delle tariffe è contraria alla rotta strategica degli Stati Uniti, che devono restare compratori d'ultima istanza del mercato globale e dunque importare massicciamente. Nell'utilizzare una legge del 1977 che conferisce al presidente poteri temporanei (un anno) per imporre imposte doganali, Trump vuole colpire sia gli alleati europei sia rivali strategici come la Cina. Sempre nel segno delle trattative, del "deal" per dirla con le sue parole. Di più: il deficit commerciale, che il presidente afferma di voler finalmente ridurre, è vitale per mantenere gli Usa la prima superpotenza al mondo. Secondo l'agenzia Reuters, nel primo trimestre le case automobilistiche, le compagnie aeree e gli importatori di beni di consumo sono stati i più colpiti dalle minacce tariffarie di Trump. Le imposte sull'alluminio e sui prodotti elettronici, come i semiconduttori, hanno condotto a un aumento dei costi. I dazi in generale hanno portato i produttori americani a innalzare i prezzi, meno delle merci importate ma comunque a un livello mediamente più alto rispetto al recente passato. Facendo così pagare il costo della guerra commerciale a famiglie e piccole e medie imprese. Dall'altro lato, tra gennaio e luglio, gli aumenti tariffari hanno generato entrate per 124 miliardi di dollari dai dazi. Si tratta del 131% in più rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, ma anche di proventi non sostenibili sul lungo periodo.