Preparare il look del proprio funerale non è eccentricità, ma un modo per controllare il racconto di sé fino alla fine: da Marilyn Monroe a Vivienne Westwood, perché l'ultimo outfit è una dichiarazione di identità
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Non è una scelta macabra, ma identitaria: definire il vestito del proprio funerale è uno degli ultimi atti di libertà estetica, una pratica diffusa nel mondo dei vip. Ornella Vanoni aveva pronto il suo da tempo: "L'abito ce l'ho, è di Dior" disse nel corso di un'intervista con disarmante normalità di chi ha fatto dell'eleganza una seconda pelle. Parlava della morte come si ammette una certezza, ma lo faceva con la saggezza liberatoria di chi non teme di gestire anche l'ultimo dettaglio della propria immagine.
Questa scelta, apparentemente frivola, è tutt'altro: è un atto di auto-determinazione estetica, perché definire un abito per il proprio funerale - un capo firmato, un vestito che ci ha rappresentato in vita significa voler restare fedeli a sé stessi anche nel momento del congedo. Non è vanità, ma coerenza con se stessi: un'ultima scelta consapevole per ribadire chi siamo stati.
Ornella Vanoni non è l'unica vip ad aver deciso come affrontare l'ultimo viaggio. Ci sono figure che hanno pensato al proprio ultimo outfit come a una parte finale della loro performance in vita. Secondo ricostruzioni biografiche, Marilyn Monroe sarebbe stata sepolta con un abito verde di Emilio Pucci, tratto dal suo guardaroba. Non un abito qualsiasi, ma uno che rifletteva la sua silhouette e il suo magnetismo.
La stilista britannica rivoluzionaria Vivienne Westwood aveva deciso un vero dress code per i partecipanti alla cerimonia funebre, scritto sull'invito: "If in doubt, dress up" (se sei in dubbio, vestiti bene). Le star della moda e dell'arte che l'hanno omaggiata hanno risposto con abiti fiorati, tartan e capi eccentrici, trasformando l’ultimo saluto in una sfilata memorabile. Anche l'icona eccentrica della moda britannica, Isabella Blow, aveva espresso il desiderio di essere sepolta con un grande cappello di Philip Treacy e con un vestito in broccato rosso e oro disegnato da Alexander McQueen, un gesto teatrale, coerente con il suo spirito visionario.
Non ci sono segnalazioni ufficiali secondo cui Giorgio Armani avesse espresso un desiderio per il momento funebre, ma alcune voci parlano di un dress code per i partecipanti alla camera ardente (abiti sobri, eleganza, rispetto) per ricordare chi aveva fatto dell'eleganza la sua cifra distintiva nella vita privata e in quella professionale. Anche nei funerali reali e istituzionali il vestito dice molte cose: a quello di Stato della Regina Elisabetta II i partecipanti hanno seguito un protocollo rigoroso, con un dress code nero: Kate Middleton ne ha indossato uno di Alexander McQueen con un cappello Dior, che rimanda a un concetto di eleganza sobria ma curata.
La scelta del vestito per l'ultimo saluto ha radici antiche: la regina Cristina di Svezia (XVII secolo) aveva dato disposizioni molto precise sul suo abbigliamento funebre: un mantello decorato, bordato in ermellino, guanti di seta, stivali di stoffa, scettro e corona. Una scelta che mostra come, anche in epoche passate, il vestito fosse uno strumento con cui esprimere prestigio, status e identità "regale" anche dopo la morte.
L'abito funebre diventa uno strumento per dire, fino all'ultimo, chi eravamo: è come un messaggio al pubblico, ai cari, alla memoria. Ordinare un look preciso, non lasciare tutto nelle mani degli altri, significa non abbandonare la propria identità fino all'ultimo istante. È un modo per imporre una forma, un rituale che rassicura: è la cura di sé che sopravvive all'ultimo atto. È un gesto di preparazione, quasi sacro nella sua misura. Un abito, soprattutto se firmato o iconico, può diventare il simbolo del ricordo: “questa era Ornella”, si penserà guardando una foto del suo funerale, con quell’abito Dior che sarà associato per sempre all’ideale di eleganza che la cantante ha sempre seguito in vita. È restare, anche nella memoria, con stile.
L'abito dell'ultimo saluto non è semplicemente un vestito: è un ultimo atto di narrazione personale. È la possibilità di lasciare un'immagine precisa, scelta da noi, che ci rappresenti fino all'ultimo fotogramma. L'ultima mise non è vanità, ma responsabilità estetica: chi siamo, quale stile abbiamo vissuto e vogliamo lasciare nel ricordo. Ornella Vanoni, con il suo Dior pianificato per il congedo, ha scritto un capitolo finale coerente con la sua biografia stilistica: una donna che ha attraversato decenni di moda, musica, vita con eleganza, ironia e autenticità. Anche nella morte, non avrebbe fatto diversamente.