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In Rete il fisico femminile resta un bersaglio costante, criticato e giudicato anche dalle stesse donne vittime di un sessismo interiorizzato che diventa sorveglianza reciproca
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Alla New York Fashion Week Lily Collins ha catturato l’attenzione con un look scintillante firmato Calvin Klein: top corto e gonna luccicante che lasciavano scoperto l’addome. Le immagini, subito condivise sui social, hanno scatenato una pioggia di reazioni contrastanti. Molti fan hanno espresso ammirazione per il suo stile, ma non sono mancate le critiche sul fisico giudicato “troppo magro” e persino “non salutare”.
Tra i commenti spicca quello di una donna che, da madre, ha confessato di provare disagio nel vedere quelle foto, temendo che possano trasmettere messaggi pericolosi alle nuove generazioni. Una preoccupazione che, pur nascendo da un intento protettivo, si inserisce in un fenomeno più ampio: il corpo femminile trasformato in terreno di dibattito pubblico, spesso proprio da parte di altre donne.
Il corpo femminile è storicamente legato a standard estetici rigidi e mutevoli: troppo magro, troppo formoso, troppo giovane, troppo segnato dal tempo. I social amplificano questa dinamica: ogni immagine diventa oggetto di analisi collettiva, ogni variazione fisica viene ingigantita e commentata.
La ragione è culturale: da secoli l’aspetto delle donne è associato non solo alla bellezza, ma anche a valori morali e identitari. Una donna “troppo magra” viene percepita come fragile o in difficoltà, una donna “in carne” come poco disciplinata. Sui social queste categorie si moltiplicano, sostenute dagli algoritmi che privilegiano ciò che divide e genera reazioni forti. Così il corpo diventa un campo di battaglia, giudicato con criteri che spesso non hanno nulla a che vedere con la salute reale, ma con l’aderenza a modelli estetici artificiali e irraggiungibili.
Le critiche non arrivano solo dagli uomini: molto spesso sono le donne a giudicare con più durezza il corpo delle altre. Questo meccanismo ha un nome preciso: sessismo interiorizzato. Si tratta, come spiega il Center for the Study of Women in Society dell’Università dell’Oregon, di un processo per cui le donne finiscono per interiorizzare messaggi culturali negativi e stereotipi di genere, applicandoli a se stesse e alle altre donne, perpetuando così le stesse discriminazioni di cui sono vittime.
In pratica, un commento che nasce da empatia (“mi preoccupa vederti così”) può trasformarsi in giudizio (“sei troppo magra, sembri malata”), rafforzando lo stesso sistema di aspettative e critiche che danneggia chiunque non rientri nello standard.
Il caso Lily Collins dimostra quanto la linea tra empatia e body shaming sia sottile. Alcune donne credono di proteggere figlie e sorelle esprimendo la loro preoccupazione, ma in realtà contribuiscono a perpetuare un circolo vizioso: qualsiasi corpo femminile, famoso o meno, è sempre messo alla prova dello sguardo altrui.
A ciò si aggiunge la logica dei social: immagini perfette, filtri, editing e inquadrature che distorcono la realtà e spingono al confronto costante. Questo crea un cortocircuito in cui le donne non solo subiscono la pressione estetica, ma diventano loro stesse strumenti di sorveglianza e giudizio reciproco. Spezzare questa dinamica significa riconoscere che il valore di una persona non si misura da una foto o da una taglia. Serve un cambio culturale che passi anche dal linguaggio: smettere di giudicare, imparare a chiedere senza etichettare, valorizzare la pluralità dei corpi femminili.
Solo così il corpo della donna potrà uscire dalla gabbia dello sguardo collettivo e tornare ad appartenere, prima di tutto, a chi lo abita.