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Lou Reed, Iggy, Queen: il re Mida Bowie

Oltre alla sua smisurata produzione personale, anche la musica scritta e prodotta con altri big: tutto finito dritto nella storia Si è spento il "Duca Bianco" del rock

Lou Reed, Iggy, Queen: il re Mida Bowie - foto 1
lapresse

Quando la portata del fiume è grande, il fiume esonda.

Così l'arte, il genio musicale, le idee di David Bowie, che accanto alla sua già vastissima produzione personale ha costruito una sorta di discografia parallela, anche questa di altezza himalayana. Lou Reed, Iggy Pop, Queen, e ci fermiamo ai top, perché c'è un sottobosco di artisti non così mainstream, gli Arcade Fire, per dire un nome. E ancora John Lennon e Mick Jagger, i Beatles e i Rolling Stones, insomma.

Autore, musicista, produttore, il Duca Bianco è stato un Fregoli anche senza il nome in copertina: e specialmente nel caso di Lou e Iggy, Bowie è stato fondamentale per lo sviluppo di un nuovo stile, oltre che per il rilancio di due carriere (e vite, soprattutto) che erano messe maluccio assai. Lou, l'anima nera dei Velvet Underground, era in stato di depressione generale dopo un primo album solista davvero poco filato fuori dalla stretta cerchia dei fans: Bowie lo ripescò nella campagna americana, lo portò a Londra e insieme al suo "chitarrista di sempre" Mick Ronson, trasformò in una magnifica statua la pietra preziosa di Reed.

"Transformer", senza discussione, è uno dei capolavori del rock, Bowie lascia il segno con la produzione, gli arrangiamenti (vedi la doppia linea di basso in "Walk on the Wild Side"), l'inconfondibile voce versione glam-falsettata nelle code di "Vicious" e "Satellite of Love". E il credito maturato con l'ex-Velvet, che da lì decolla verso la landa degli indimenticabili, è nulla se confrontato con quello verso Iggy Pop, l'Iguana ormai ridotta a uno straccio maculato a metà anni '70. Stesso retrobottega di Reed: rottura con la band che lo ha portato al successo - gli Stooges -, droga a fiumi, incapacità di rialzarsi in un ambiente musicale americano in tutt'altre faccende affaccendato. Stavolta il prepagato di David Bowie per l'assistito non è in direzione Londra, ma Berlino.

Sta iniziando il periodo "decadente" del Thin White Duke, il sottile Duca Bianco, come è stato battezzato durante il disastroso (a livello personale) periodo di Los Angeles. Dal clima di piombo della capitale spaccata in due e da un'altra partnership leggendaria per la storia del rock, quella con Brian Eno, uscirà la trilogia formata da Low, Heroes e Lodger: a fianco, i due dischi di Iggy Pop prodotti e suonati da e con David, "The Idiot" e "Lust for Life". Stavolta, di stupefacente, c'è il risultato, con l'Iguana che passa indifferentemente dal semi-punk a pezzi da crooner, in cui si sente "odore" di Bowie lontano un miglio, cantati con quel timbro bassissimo, da speleologi. Iggy, ancora oggi, ha i capelli lunghi, canta a torso nudo e - sicuramente - ringrazia il suo mentore, ai tempi un po' sballato, ma sempre perfettamente in grado di "sentire" i grandi.

Il popolone tutto, invece, conosce "Under Pressure". Il più famoso duetto in cui Bowie ha messo la voce, e con quale altra voce. E' bastato un azzeccato giro di basso, buttato giù da John Deacon. Poi, con in ballo anche Freddie Mercury, il resto è venuto da sé. Un classico dei classici dei Queen che, anche in ovvia assenza del co-protagonista, non hanno mai rinunciato a inserirlo nelle setlist dei loro concerti: effettivamente è un evergreen, ha una formula musicale e vocale irresistibile (in rete gira il mix con le sole voci di David e Freddie: pazzesco), uno di quei pezzi che non stancano e non stancheranno mai anche se qualcuno tipo Vanilla Ice ha provato a rovinarlo con una cover rappettara. Esperimento fallito.

Pochissimi sono stati universalmente considerati più grandi dei Queen e di Bowie, tra essi i Beatles, e i Rolling Stones. Bene, il Duca non si è fatto mancare niente dato che ancora nei vituperati mid-Seventies americani collaborò, scrisse e si fece accompagnare da John Lennon in "Fame", uno dei tanti gioielli di Bowie mai sufficientemente celebrati. E più avanti, a metà '80, più quieto, più star, ormai capace di fare qualsiasi cosa, David accettò di dare la sponda a Mick Jagger, all'epoca disperatamente voglioso di dare un calcio alle altre Pietre e mettersi in proprio. Ufficialmente, fu per una buona causa: "Dancing in the Street", cover r'n'b di Martha & The Vandellas, venne realizzato come singolo e soprattutto come video per il Live Aid di Bob Geldof, e certamente finì negli highlights del più grande concerto rock di sempre insieme al mini-set dello stesso Bowie. Elegantissimo, in completo grigio, cravatta gialla, emetteva luce più dei mille riflettori di Wembley. Uscì sul palco e fece Heroes, perfetto, quella volta tutti erano, si sentivano eroi di un giorno. E a dirlo poteva essere solo lui, eroe dell'arte per tutto il tempo della sua vita e anche oltre, Re Mida per tanti, e per la musica.