In attesa degli accordi annunciati da Trump ma non confermati dalla controparte, la Cina investe in Africa, Sudamerica e Sud-Est asiatico per esportare tecnologia e influenzare le regole globali del commercio
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La guerra dei dazi non ha fermato la Cina. Anzi, ha accelerato una trasformazione strategica: non più solo la "fabbrica del mondo", Pechino ora vuole decidere le regole del gioco. Dalle infrastrutture africane ai data center in America Latina, passando per i porti europei, già un po' di tempo la Cina sta diversificando mercati, rotte e dipendenze. Un gigantesco piano B che oggi diventa ancora più importante per non restare ostaggio delle scelte americane.
Con i dazi americani saliti al 100% su alcuni prodotti chiave — come auto elettriche e semiconduttori — la Cina ha avviato un’offensiva diplomatica e industriale per aprire nuovi canali. Gli investimenti cinesi in Africa sono aumentati del 16% nel 2024 secondo i dati del China-Africa Research Initiative (Cari) della Johns Hopkins University.
In Sudamerica Pechino finanzia porti, ferrovie e infrastrutture digitali: secondo uno studio della Eclac (Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi), la Cina ha superato gli Stati Uniti come primo partner commerciale del Sudamerica. E in Asia promuove accordi bilaterali per saltare le sanzioni e rafforzare come blocco alternativo l'Asean, vale a dire l'Association of Southeast Asian Nations (un'organizzazione intergovernativa composta da 10 paesi del Sud-Est asiatico: Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam).
Oggi la Cina non esporta solo prodotti a basso costo, ma tecnologie avanzate. Con il programma "Made in China 2025", Pechino punta a dominare i settori strategici, dai chip alle batterie, fino all’intelligenza artificiale. I dazi Usa non fermano questo processo: lo dirottano. Così Huawei già da anni ha creato data center in Kenya e Argentina, BYD aperto stabilimenti di assemblaggio di vetture in Brasile e Xiaomi venduto smartphone a prezzi sempre più competitivi in Medio Oriente.
In Europa il dibattito si concentra spesso sulla concorrenza sleale. Ma il vero gioco si gioca sulla capacità della Cina di imporre i propri standard tecnologici. Dalle reti 5G alle specifiche per le batterie, Pechino propone un proprio "modello industriale" che rischia di diventare dominante nei Paesi che ricevono capitali e tecnologie. La Commissione Europea ha avviato indagini antidumping su veicoli elettrici cinesi, ma il rischio è reagire troppo tardi.
L’Italia è coinvolta indirettamente in questa ristrutturazione delle rotte commerciali da parte della Cina. La prima conseguenza è logistica: con Pechino che investe sempre più nei porti extra-Ue e nell’asse Suez-Africa, i porti italiani rischiano di diventare meno centrali nelle rotte delle merci asiatiche. Nonostante il Memorandum del 2019 sulla Belt and Road, oggi i terminal di Genova, Trieste e Taranto non sono più prioritari nelle strategie marittime cinesi. Lo ha rilevato il centro studi Srm Studi e Ricerche per il Mezzogiorno, secondo cui la Cina sta puntando su scali alternativi nel Mediterraneo (come il Pireo, già controllato da Cosco) e in Nord Africa: nel 2022 i porti italiani hanno movimentato oltre 490 milioni di tonnellate di merci, con un incremento dell’1,9% rispetto al 2021. Tuttavia, si osserva una crescente concorrenza da parte di altri porti mediterranei, come il Pireo in Grecia, che beneficiano di investimenti infrastrutturali da parte della Cina.
In parallelo, uno studio del Centro Studi Confindustria stimava già nel 2023 che l’industria italiana dipenda dalla Cina per il 25% del valore e il 22,5% della varietà dei prodotti critici importati, in particolare nei settori ICT e tessile. Questa dipendenza espone oggi le imprese italiane a rischi di interruzione nelle forniture, specialmente in un contesto segnato da tensioni doganali e riallineamenti geopolitici.
Infine, la crescente presenza economica cinese in mercati emergenti come Africa e America Latina, dove Pechino combina esportazioni con finanziamenti e progetti infrastrutturali, rende più difficile per molte imprese italiane competere. Europa e Italia potrebbero perdere ancora di più la loro centralità logistica e soffrire una maggiore vulnerabilità industriale.