Washington considera il Paese sudamericano parte del proprio "cortile di casa" e ammassa navi e soldati nelle acque caraibiche. Nel mirino di Trump ci sono anche il petrolio venezuelano e l'ombra della Cina
di Maurizio Perriello© Tgcom24
Negli Usa la chiamano "drug boat war", la guerra alle barche che trasportano droga. Eco esplicito della "war on drugs" inaugurata già da Ronald Reagan quasi mezzo secolo fa. Il nome ufficiale dell'operazione militare contro i "narcoterroristi" venezuelani è però "Southern Spear", "lancia meridionale" puntata contro il regime di Nicolas Maduro. Pura propaganda americana, alla quale sono rimasti in pochissimi a credere. La contesa col Venezuela, la militarizzazione delle acque caraibiche, la spinta per un cambio di regime anche dall'interno (tramite le opposizioni) e gli attacchi a (finora) piccole unità navali rispondono a logiche più profonde, di carattere geopolitico ed economico. Caracas, come in passato, non è certo rimasta a guardare e ha annunciato un importante dispiegamento di forze in risposta alla crescente pressione statunitense al largo delle sue coste. La tensione fra i due Paesi, insomma, ha raggiunto livelli molto alti e minaccia l'escalation diretta da un momento all'altro. Ma sarà davvero così?
Iniziamo col valutare i veri obiettivi strategici dell'amministrazione Trump, che sono sostanzialmente tre:
Gli Usa hanno impiegato quasi un secolo a diventare un'isola geopolitica, cioè a rendere colonie o innocui gli Stati del loro continente. Domare il "ribelle" Venezuela risponde a questo imperativo strategico per restare la superpotenza mondiale.
La lotta al traffico di droga è dunque un pretesto retorico. La stessa distruzione delle navi, con annesse "prove", ne è indizio. Senza contare che quasi tutte le rotte del fentanyl, che sta decimando la gioventù statunitense, passano da Pacifico e Messico e non dai Caraibi. Già durante il suo primo mandato, nel 2019, Trump provò già a rovesciare il regime di Maduro senza riuscirci. Stesso copione del 2002, quando il presidente (sempre repubblicano) George W. Bush fu testimone del fallimento del golpe contro Hugo Chavez. Qui si inserisce ancora una volta la propaganda americana sulla lotta alle dittature, lanciando un messaggio anche alla vicina Colombia e alla presidenza di Gustavo Petro. Come a dire: occhio, potresti essere il prossimo. La contro-retorica del presidente colombiano è giunta durante i lavori della Cop30, in cui ha attaccato duramente Trump e le lobby del petrolio.
Ed eccoci giunti al punto. Il Venezuela ha le riserve di petrolio più grandi del mondo ed è uno dei principali produttori. E il problema maggiore è che ne vende una grande quantità alla Cina, che nel frattempo è diventata il centro di un mercato parallelo di idrocarburi che connette tra loro anche Russia, Iran e Paesi arabi. Nel concreto, vuol dire che una fetta consistente del mercato globale del petrolio non fa più riferimento al dollaro per gli scambi, ma allo yuan cinese. Una situazione che compromette molto il potere e la presa della moneta statunitense sugli altri Paesi. Non a caso, il settore degli idrocarburi venezuelano è bersaglio delle sanzioni americane da anni e, adesso, anche del contenimento marittimo compiuto dalle navi di Washington. Le navi cariche di barili non riescono cioè a partire alla volta di Pechino e degli altri clienti. L'obiettivo a lungo termine degli Usa è dunque riportare sotto il potere del dollaro l'intero mercato petrolifero, come la rete del petrodollaro era riuscita a fare dagli Anni Settanta fino a qualche tempo fa.
Nonostante il dispiegamento di navi militari e della portaerei Gerald Ford, la più grande del mondo, la prima opzione degli Usa resta quella di evitare un attacco e il conseguente scontro militare diretto. Non a caso Trump ha segnalato l'autorizzazione della Cia a operazioni mirate in territorio venezuelano. La tattica preferita dall'amministrazione americana è dunque un aumento "calcolato" della pressione che spinga Maduro a dimettersi o a essere rovesciato senza però far piombare il Paese nel caos e nelle mani di una giunta militare. Il vero punto dirimente sarà capire se le forze militari sono o resteranno fedeli a Maduro in uno scenario di guerra. La pressione sul governo agisce tuttavia anche negli Stati Uniti: dopo un tale impiego di uomini e mezzi nel Mar dei Caraibi, il governo Trump vedrebbe come una sconfitta il ritiro degli americani "a mani vuote". Anzi, risulta assai probabile che gli Stati Uniti continueranno ad aumentare le sue forze armate, navi, aerei e persino truppe nei Caraibi. Per questo motivo, è probabile che Washington continuerà a tenere alta la tensione su Caracas con attacchi mirati, senza sfociare nell'escalation incontrollata. Seguendo, cioè, il medesimo copione visto in Medio Oriente con l'attacco all'Iran compiuto al fianco di Israele.
Messe sul piatto della bilancia, le forze dei due Paesi non potrebbero essere più diverse. Gli Usa sono decisamente superiori, al punto da progettare anche un'invasione di terra, ed è altamente improbabile che l'esercito venezuelano riesca a contrastare l'aggressione. Ma il presidente Nicolas Maduro ha altre opzioni sul tavolo. Il ministro della Difesa venezuelano, Vladimir Padrino Lopez, ha annunciato l'attivazione della "fase avanzata" del Piano Independencia 200, un meccanismo di risposta militare approvato a settembre per rafforzare le misure di difesa contro la presenza statunitense nei Caraibi. Alle esercitazioni hanno oltre 200mila soldati venezuelani. Più che il numero, a colpire è la compattezza di truppe e popolazione nel voler respingere "l'aggressore imperialista". La dottrina militare del Paese deve molto alle idee di Hugo Chavez e si basa sul principio che civili e militari siano tutti "patriottici e antimperialisti". In questo modo Maduro, che ha assunto la presidenza dopo la morte di Chavez nel 2013, intende stemperare il timore di rovesciamento politico ordito dalle opposizioni e sponsorizzato dall'esterno dagli Usa. Se il Paese resta unito, non cadrà.
Dal punto di vista tecnico, però, non c'è storia. Secondo Global Firepower, su una popolazione totale di 31 milioni, l'esercito venezuelano conta un personale militare attivo di 337mila unità. Di questi, 109mila sono membri attivi, 220mila appartengono alle forze paramilitari e i restanti 8mila sono riservisti. Oltre all'inferiorità di uomini e mezzi, l'esercito venezuelano nasconde però una realtà molto più preoccupante: le sue forze armate hanno ricevuto per anni un addestramento militare limitato e per giunta orientato maggiormente alla sicurezza interna. Inoltre la Marina nazionale non è all'altezza di quella statunitense, padrona (finora) incontrastata dei mari.