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"La maternità in Italia è ancora un tabù", ecco perché Miriam Leone ha ragione

Le parole dell'attrice hanno riaperto una discussione che riaffiora ciclicamente, senza mai trovare una vera risoluzione: la difficoltà di essere madri lavoratrici

18 Dic 2025 - 14:44
 © IPA

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Conciliare lavoro e figli è complicato, ma la maternità potrebbe essere vissuta diversamente se ci fosse un altro approccio. Le parole di Miriam Leone hanno riaperto una discussione che in Italia riaffiora ciclicamente, senza mai trovare una vera risoluzione: la difficoltà di essere madri lavoratrici. L’attrice ha parlato della fatica di vivere la maternità fuori dagli stereotipi, del peso delle aspettative sociali e del modo in cui il corpo e le scelte di una donna continuano a essere terreno di giudizio pubblico. Un racconto personale che, ancora una volta, ha fatto emergere un disagio collettivo. Ma perché in Italia la maternità resta un tabù, nonostante se ne parli ovunque?

Il paradosso culturale - La maternità è spesso celebrata, idealizzata, invocata come “valore fondante” della società. Eppure, allo stesso tempo, è poco raccontata nella sua realtà concreta. Le madri devono essere presenti ma non assenti dal lavoro, realizzate ma non ambiziose, dedite ma mai stanche. Chi esce da questo perimetro viene percepita come manchevole, egoista o “sbagliata”. Nel mondo dello spettacolo, come in quello professionale più ampio, la maternità viene spesso vissuta come un rischio: una pausa non concessa agli uomini, un’interruzione che può costare ruoli, opportunità, credibilità. Le dichiarazioni di Leone si inseriscono proprio in questo spazio di contraddizione, mostrando quanto anche donne affermate e privilegiate si scontrino con un sistema che fatica ad accettare la complessità delle loro scelte.

Solitudine e vuoto di politiche adeguate - A rendere la maternità un tema scomodo contribuisce anche il silenzio che circonda tutto ciò che non rientra nel racconto edulcorato: la fatica, il senso di perdita, la solitudine, il conflitto tra identità personale e ruolo genitoriale. In Italia parlarne apertamente viene ancora vissuto come una forma di ingratitudine, quasi una colpa morale. C’è poi il nodo strutturale. Un Paese che chiede alle donne di fare figli ma offre servizi insufficienti, congedi diseguali, un welfare fragile e una cultura del lavoro poco flessibile.

Il confronto con gli altri Paesi Ue, perché l'Italia è indietro? - Un confronto con altri Paesi europei evidenzia quanto le politiche di sostegno concreto alla maternità e alla conciliazione lavorativa siano più sviluppate altrove, e come questa differenza contribuisca a normalizzare la genitorialità nella vita sociale ed economica. In molti Stati nordici, come Svezia e Norvegia, esistono sistemi di congedo parentale molto estesi e flessibili: in Svezia, per esempio, i genitori possono usufruire fino a 480 giorni di congedo retribuito da condividere tra madre e padre, con quote specifiche riservate a entrambi per favorire una reale condivisione delle responsabilità di cura. Questo tipo di politiche non solo sostiene economicamente le famiglie nei primi mesi, ma favorisce anche un maggiore coinvolgimento paterno e una cultura più equa tra lavoro e cura familiare. In Spagna, recentemente, il governo ha ampliato il congedo parentale fino a 17 settimane pienamente retribuite per ciascun genitore, rendendolo uno dei più generosi in Europa e promuovendo così un approccio più equilibrato e meno stigmatizzato alla cura dei figli. Altri Paesi, come la Francia, combinano congedi retribuiti e servizi di asili nido ampiamente accessibili, oltre a generosi assegni familiari, investendo una quota significativa del Pil in sistemi di supporto alla famiglia che contribuiscono a rendere meno oneroso il percorso genitoriale. Anche la Germania offre forme di sostegno economico diretto ai genitori attraverso sistemi di benefit che sostituiscono una quota del reddito durante l’assenza dal lavoro per cura dei figli. Dal confronto internazionale riguardo la spesa pubblica dedicata ai servizi per l’infanzia e alla prima educazione emerge che nei Paesi dell’Ocse la media di spesa pubblica per l’educazione e i servizi di cura nella prima infanzia si attesta attorno allo 0,8 % del Pil, con differenze significative tra Stati (superiore all’1% in Svezia, Norvegia, Francia e altri Paesi nordici) e valori molto più bassi in realtà con sistemi meno sviluppati. In Italia la quota di spesa pubblica destinata all’istruzione (che include anche la prima infanzia ) è storicamente tra le più basse dell’Unione europea in rapporto al Pil e al totale della spesa pubblica, lasciando scarsità di risorse disponibili per potenziare nidi e servizi educativi diffusi su tutto il territorio nazionale. 

Il calo di natalità è collegato all'assenza di una "rete"? - Un ulteriore elemento che spiega perché la maternità rimane un tabù riguarda proprio i numeri della natalità e l’assenza di politiche strutturali davvero efficaci. Secondo l’ultimo rapporto Istat, l’Italia ha registrato nel 2024 solo 369.944 nascite, segnando un nuovo minimo storico e confermando una tendenza in calo ormai costante da oltre un decennio; il tasso di fecondità medio è sceso a 1,18 figli per donna, ben al di sotto della soglia di 2,1 necessaria per garantire il semplice ricambio generazionale. I dati preliminari per il 2025 indicano un’ulteriore riduzione del tasso a 1,13 e un’ulteriore diminuzione delle nascite nel primo semestre dell’anno. Questa crisi demografica è strettamente connessa alle difficoltà del sistema di sostegno alla maternità lavorativa.