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Maestro di conduzione e autentico talent scout, ha lanciato generazioni di artisti e ha costruito con carisma e visione l’identità del piccolo schermo di casa nostra
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È morto Pippo Baudo, e con lui se ne va un pezzo profondo, articolato, pulsante della televisione italiana. Non soltanto un conduttore, non solo un volto noto. Pippo era un radar, un direttore d'orchestra che sentiva la musica prima che iniziasse, un visionario con lo smoking addosso e il fiuto dei grandi talent scout americani, quelli che con uno sguardo capiscono se c'è una scintilla.
In un Paese che spesso inciampa nel provincialismo e nella nostalgia, Baudo ha saputo essere classico senza mai diventare vecchio. Ha attraversato decenni con la leggerezza di chi conosce bene il proprio mestiere: la conduzione come arte, la diretta come coreografia, il palco come un'estensione della propria anima. Perché Pippo non presentava, accoglieva. Accoglieva gli spettatori, i concorrenti, i cantanti, i comici e soprattutto i giovani.
L'elenco di coloro che "ha lanciato Baudo" somiglia più a una galleria di ritratti che a una semplice lista. Beppe Grillo, Andrea Bocelli, Lorella Cuccarini, Heather Parisi, Eros Ramazzotti, Laura Pausini, Giorgia... nomi - e questi sono solo alcuni - che oggi sembrano inevitabili nel firmamento dello spettacolo, ma che una volta erano volti qualsiasi, fiammelle incerte. E Pippo li ha visti, li ha presi per mano fidandosi del suo intuito raro, di quel sesto senso da vero talent scout della televisione italiana che lo portava a distinguere tra chi cercava un'occasione e chi aveva una marcia in più. E quando vedeva quel fuoco negli occhi, sapeva accenderlo.
Ma ridurre Pippo Baudo al "talent scout" sarebbe troppo poco, perché lui era anche custode. Custode di un certo modo di fare televisione che non aveva paura del racconto, del ritmo, del tempo lungo. Un Sanremo di Baudo non si spegneva dopo il tweet virale, non viveva solo della polemica del giorno. Aveva una grammatica, un respiro, un impianto narrativo che oggi sembra quasi utopico.
Certo, Pippo ha incarnato anche la televisione dei tempi d'oro della Rai, quella più monolitica, più istituzionale. Eppure, dentro quella cornice rigida, lui è sempre riuscito a infilare qualcosa di suo: un'ironia gentile, una partecipazione sincera, persino una forma di coraggio. Sì, coraggio, perché ci voleva forza per restare centrali in uno spettacolo che cambiava pelle ogni dieci anni. E lui c'era, sempre. Spesso criticato, a volte superato, ma mai veramente fuori gioco. La sua era una televisione fatta a mano, come un abito di sartoria: pensata, costruita, cucita addosso al pubblico. Una tv dove il tempo aveva ancora un significato, e l'attesa era parte della magia. "Sanremo", "Fantastico", "Domenica In", e decine di altri programmi non sono stati solo show di intrattenimento, ma capitoli di un racconto che oggi sembra lontano che ha formato il gusto, lo stile e il linguaggio di milioni di italiani.
Pippo Baudo è stato il "padre" senza paternalismo, il presentatore senza maschera, il professionista che parlava con il pubblico come si parla a casa, con chi si ama. La sua autorevolezza non veniva dal ruolo, ma dalla fiducia che trasmetteva. Gli si credeva, e in tempi di cinismo e apparenze era una qualità preziosa, quasi rivoluzionaria.
Oggi che la televisione si frantuma in mille schermi, che i talent sono industria e le carriere durano il tempo di una clip, il metodo-Baudo sembra venire da un'altra epoca. E forse è vero, ma proprio per questo ci manca e ci mancherà. Perché era televisione fatta con le mani, con l'ascolto, con la pazienza di chi sa che ogni persona può essere un racconto.