L'INTERVISTA

I Delta V fotografano il presente con "In Fatti Ostili": "Fare musica oggi è uno sforzo epocale"

Il gruppo torna con un album che unisce critica sociale e introspezione: "Ci vuole coraggio e un pizzico di romanticismo per crederci ancora". Tgcom24 ne ha parlato con loro

di Massimo Longoni
20 Ott 2025 - 12:22
 © Marco Olivotto

© Marco Olivotto

I Delta V sono tornati. È uscito l'album "In Fatti Ostili", settimo disco di inediti, secondo dopo "Heimat" che nel 2019 aveva visto la band tornare dopo undici anni di silenzio con un lavoro che cambiava decisamente le coordinate del progetto. Il tema centrale di "In Fatti Ostili", già preannunciato dal suo titolo e dal singolo apripista "Nazisti dell'Illinois", è il senso di ostilità che rappresenta un sentimento ormai diffuso e condiviso della società di oggi, sintomo di un grande cambiamento dei tempi rispetto agli anni in cui il progetto Delta V ha visto la luce. La paura del diverso ha oggi sostituito la fiducia, generando a tutti i livelli chiusura e diffidenza. 

I Delta V di Carlo Bertotti (basso e synth) e Flavio Ferri (chitarre e programmazione) possono essere considerati la band che visse due volte. Una prima fase a cavallo tra gli anni 90 e la prima metà dei Duemila, caratterizzata anche da grandi successi ottenuti con rifacimenti in chiave elettronica di classici della musica italiana come "Un'estate fa" o "Se telefonando", poi una lunga pausa e il ritorno, con una nuova cantante, Marti (al secolo Martina Albertini), e un approccio decisamente più impegnato e con una particolare attenzione alle liriche dei brani. 

Tornate cinque anni dopo "Heimat" con un album che prosegue sul solco tracciato da quel disco che ha aperto per voi una nuova fase. Come mai un tempo così lungo?

Bertotti: Ci sono voluti cinque anni per prendere tutto questo magma di roba che avevamo e dargli una forma compiuta. Erano ormai due anni che ci dicevamo che eravamo pronti a uscire, ma poi alla fine mancava sempre quella cosa che ti permette di dire che è veramente tutto a fuoco. E questa cosa è successa questa primavera, perché abbiamo chiuso le ultime cose a giugno. Ci sono pezzi che sono stati scritti durante il Covid e si sente tantissimo, tipo "Wendy", e altri invece che sono stati scritti nell'ultimo anno e anche in quel caso lo percepisci dai testi.

Il disco è ancorato al presente ma ha anche legami con il vostro passato: è stato co-prodotto da Roberto Vernetti che era stato il vostro primo produttore.

Bertotti: Nell'autunno dell'anno scorso ci siamo rincontrati con lui in occasione di una cena proprio casualissima. Non ci vedevamo da tanti anni e non avevamo lavorato con lui dai tempi di "Un'estate fa", quindi parliamo del 2000. Di fatto quella sera lì, per un'alchimia strana, abbiamo deciso di collaborare ancora insieme e così lui ha prodotto tre pezzi del disco insieme a Paolo Gozzetti che comunque produce tutto l'album. Per noi è stato un altro segnale che le cose avevano la necessità di essere fatte con i tempi giusti. 

Come già "Heimat" ma con uno scatto ulteriore in avanti, questo può essere definito un album "impegnato", se non addirittura politico. Come mai questo cambio di direzione rispetto alla vostra prima fase?

© Marco Olivotto

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Bertotti: Quando abbiamo deciso di ricominciare a fare musica con "Heimat" abbiamo pensato che i fattori andavano invertiti. Nella prima versione Delta V puntavamo tantissimo sull'estetica del suono. Io e Flavio avevamo uno studio e lavoravamo tantissimo proprio sulla ricerca sonora, volevamo innovare noi stessi sempre e cercavamo sempre di trovare il modo per farlo. Quindi la cosa che più ci interessava era lo stile. Adesso la musica è al servizio delle parole. Flavio un giorno ha coniato un termine secondo me molto pertinente: "cantautorato elettronico". Perché l'elettronica è la nostra matrice sonora ma di fatto ci siamo trovati a scrivere canzoni riguardo alla parte testuale proprio come se volessimo approcciarle in maniera cantautorale.

L'album si chiude con "I raggi B", uno strumentale con la chitarra di Steve Hackett, un artista all'apparenza lontano da voi...

Bertotti: In realtà quando io e Flavio ci siamo conosciuti io ero tutto Ramones e Sex Pistols mentre lui ascoltava sempre i Genesis, in particolare "Selling England By the Pound", "The Lamb Lies Down on Broadway" e anche "Foxtrot". Quandi è scoppiato il Covid a un certo punto sono andato in loop di paranoia e mi mettevo in terrazzo e ascoltavo solo quei tre dischi. Quindi qualcosa è rimasto in questo pezzo...

Come è nato il contatto con Hackett?

Bertotti: Un giorno abbiamo sentito un amico di Flavio, abbiamo accennato a questa cosa e lui ci ha detto di mandargli il materiale che lo avrebbe fatto avere a Steve Hackett tramite Armando Gallo, storico fotografo dei Genesis dell'epoca. Per farla breve gli abbiamo mandato la canzone e dopo tre giorni ci è arrivato il file con l'assolo di chitarra...

Ferri: Il pezzo in realtà nasceva sulla stessa armonia come canzone con anche una linea vocale. Ma ci siamo detti: "No, c'è Steve Hackett dobbiamo lasciare solo lui". 

"Regole a Milano" è una fotografia impietosa di come la città sia cambiata in questi anni perdendo un'identità culturale che una volta sembrava forte.

Bertotti: A Milano ci campiamo, ci siamo cresciuti, ci ha formati, ci ha allattati e ci ha nutriti. E adesso un po' ci ha deluso e per certi aspetti ci ha traditi. Però è un po' come quelle situazioni da cui non ti puoi allontanare per mille motivi contingenti e dove gli affetti rimangono un po' incastrati in questa babele in questa griglia e quindi è una città come dire lucida perfetta per certi aspetti che si rifà il maquillage per risultare sempre più bella ma di fatto ha una grande carenza di contenuti. 

Il video della canzone è un malinconico giro per luoghi che erano negozi di dischi e locali per suonare e che ora non ci sono più.

Ferri: È terribile. Quando abbiamo girato io sono venuto un giorno solo, perché io ora vivo a Barcellona dove sono fuggito anni fa. Dove c'era il Propaganda (discoteca in cui si sono svolti moltissimi concerti negli anni 90 - ndr) ora c'è un supermercato, il Rolling Stone lo hanno abbattuto e ci hanno fatto un condominio. Ti viene una tristezza immensa e ti chiedi se era davvero necessario che finisse così oppure se ci fosse così poca volontà politica di mantenere aperto qualcosa che dava vitalità alla città. 

Bertotti: Il nostro non è passatismo, perché se quei luoghi fossero stati sostituiti da qualcosa di analogo ma nuovo, sarebbe la normale evoluzione. Sono stati spazzati via tutti i posti medi da due-trecento posti e non è che tutti possano andare al Forum. Il primo concerto dei Delta V a Milano lo abbiamo fatto in un posto che si chiamava Binario Zero, oggi al suo posto c'è un cantiere. 

Ferri: Al Rolling Stone ci abbiamo visto di tutto, perché era della grandezza perfetta per vedere. Oggi c'è questa mania del concerto negli stadi in cui non vedi niente, ma quello è un altro discorso che risponde a logiche diverse. La realtà è che stata spazzato via tutto ciò che era medio. Il destino dei locali musicali a Milano è la perfetta metafora della società in cui viviamo: ci sono quelli molto ricchi e poi ci sono quelli molto poveri, la media borghesia è stata spazzata via o annaspa.

Qualcuno direbbe che è il mercato a decidere...

Bertotti: Qui non stiamo parlando di semplici attività commerciali. Quel mondo di locali era quello in cui c'era un giro di persone che si conoscevano e facevano cultura. Nel momento in cui tu cancelli quella roba tu stai cancellando una parte di cultura fondamentale perché la musica, spiace che qualcuno non sia d'accordo, è anche cultura. Se in una città come questa permetti che certi luoghi chiudano perché li metti nelle condizioni di chiudere, è perché non hai creato un'alternativa. Perché a Roma, a Torino, a Bologna è pieno di negozi di vinili e qua a Milano ce ne sono tre o quattro e fanno fatica.

Ferri: Per non parlare dell'estero. A Barcellona e ci sono 35 negozi di dischi, in metà di questi si può anche suonare live. 

Quanto ha inciso l'arrivo di Marti nel gruppo per dare vita a questa seconda fase?

© Marco Olivotto

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Bertotti: Anche in questo siamo cambiati tanto. Nei primi anni abbiamo cambiato diverse cantanti, perché volevamo avere l'interprete più corretta per quelle che erano le coordinate del disco: Lu Heredia era in un modo e Francesca Touré in un altro e Gil Kalweit in un altro ancora. Adesso invece abbiamo bisogno di stabilità. Questo è un progetto molto più complicato e ha bisogno di essere costruito mattone dopo mattone. Non puoi smontare una cosa del genere. Se credi in questo tipo di musica devi essere fedele a 360 gradi. 

Ferri: C'è anche da dire che le altre erano semplici interpreti, mentre con Marti il confronto è completamente diverso, perché lei per cantare questi testi se li deve sentire addosso, altrimenti non te li canta. È molto selettiva e ha anche un carattere molto deciso.

Bertotti: Con lei in gruppo è cambiata anche la chimica tra noi. Io e Flavio abbiamo caratteri molto diversi, io sono sempre stato quello super attivo, lui sempre quello pacato. Ora invece c'è lei che è un vero uragano, anche se lei quando canta sembra molto placida, quando lavori con lei c'è una forte tensione emotiva. Le sessioni di registrazione rischiano di essere complicatissime però poi alla fine il risultato è sempre come serve. Noi siamo sui grandi fan.

In passato avete fatto diverse cover, in questo disco invece vi siete autocoverizzati riprendendo "San Babila ore 20" che era presente sull'album "Pioggia rosso acciaio" e che poi avevate già rifatto con Marti alla voce nel 2019. È perché quella canzone uscita vent'anni fa era il primo seme di quella che sarebbe stata la direzione presa oggi? 

Ferri: "Pioggia rosso acciaio" è stato sempre il mio disco più conflittuale, non a caso dopo quello ci siamo fermati per oltre dieci anni. Però sicuramente dal punto di vista del testo un aggancio c'è. 

Bertotti: È un brano che in questo album ci sta bene, parla lo stesso linguaggio. Anche se ha più di dieci anni è più attuale adesso di prima. Sarebbe bello che oggi fosse un pezzo superato, perché vorrebbe dire che tante cose si sono messe a posto. 

Adesso vi aspetta un tour per presentare il nuovo album. Come sarà la band?

Bertotti: Ci saranno con noi Nicola Manzan (Bologna Violenta, Baustelle, Teatro degli Orrori) alla chitarra e al violino e Simone Filippi (Ustmamo, CCCP, Gianni Maroccolo) alla batteria, come nelle date fatte a maggio. Ma abbiamo anche in programma qualcosa per il 2026. 

Per chiudere: come si sentono i Delta V nel panorama discografico attuale?

Bertotti: Inizialmente avevamo tre titoli provvisori per l'album, uno di questi era "Samurai". C'è quella logica un po' romantica per cui parti per una missione sapendo che comunque segui l'ideale. Oggi come oggi, fare musica in un certo modo è uno sforzo epocale e veramente devi essere animato da una grande forza interiore, tenacia e uno spirito un po' romantico. Ma da un altro lato è un privilegio.

Ferri: Dopo tanti anni abbiamo Steve Hackett in un disco, abbiamo rimesso in piedi la Compagnia dell'Anello, con anche Vernetti e Paolino. Questa disco se tu ragionassi con le logiche di oggi non esisterebbe. Invece noi abbiamo la fortuna che c'è ancora gente che crede che questa roba abbia un senso. Qualcuno ancora interessato esiste e speriamo che siano sempre di più.

Le date dell'"In Fatti Ostili Tour" dei Delta V

8 novembre – Fontanafredda (Pordenone) – Astro Club

13 novembre – Napoli – Duel

14 novembre – Livorno – The Cage

27 novembre – Roma – Largo Venue

28 novembre – Seregno (Monza Brianza) – Tamburine

29 novembre – Corneliano D’Alba (Cuneo) – Cinema Vekkio

5 dicembre – Grassina (Firenze) – Casa del Popolo

10 dicembre – Torino – Hiroshima Mon Amour

13 dicembre – Vignola (Modena) – Circolo Ribalta

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