L'INTERVISTA

Violenza sulle donne, Sofia Leda Salvati: "La prevenzione deve coinvolgere anche gli uomini"

La responsabile dell'area innovazione e sviluppo di Asilo Mariuccia spiega cosa è cambiato col Codice Rosso: "Ha consentito l'emersione dei casi e la possibilità di intervenire nelle situazioni ad alto rischio"

di Simona Pisoni
25 Nov 2025 - 07:00

Il 25 novembre ritorna ogni anno con il suo carico di dolore, memoria e responsabilità. Per chi lavora nei centri anti-violenza è l'occasione per ricordare che gli abusi sulle donne non sono un'emergenza sporadica, bensì un fenomeno strutturale, radicato nelle abitudini, nei linguaggi e negli squilibri di potere che attraversano la nostra quotidianità. Oggi la sensibilità collettiva è cambiata, eppure resiste una zona d'ombra fatta di stereotipi, minimizzazioni e forme di abuso che ancora fatichiamo a riconoscere: dalla violenza psicologica a quella economica, invisibile, ma capace di inchiodare per anni le donne in relazioni che tolgono libertà, dignità e futuro. La responsabile dell'area innovazione e sviluppo di Asilo Mariuccia a Milano, Sofia Leda Salvati fa un quadro della situazione attuale e sottolinea come la prevenzione debba passare anche attraverso gli uomini: "È fondamentale un loro coinvolgimento, affinché il cambiamento sia realmente sostenibile".

Come è cambiata negli anni la sensibilità della gente nei confronti di abusi, molestie, violenze sulle donne?
Negli ultimi anni l'attenzione pubblica e istituzionale sulla violenza di genere si è ampliata, sostenuta anche dall'introduzione di nuove norme e linee guida nazionali che hanno rafforzato gli strumenti di tutela e definito con maggiore precisione i percorsi di intervento. Questo ha contribuito a rendere più visibili le diverse manifestazioni della violenza - non solo quella fisica, ma anche le forme psicologiche, economiche e la violenza assistita, spesso indicatori precoci di situazioni di abuso. Parallelamente, emergono però criticità strutturali: si fatica ancora a riconoscere le forme meno evidenti della violenza, soprattutto, quando si manifestano all'interno delle relazioni affettive o familiari. Persistono stereotipi che minimizzano segnali di controllo, manipolazione e isolamento, ostacolando l'emersione dei casi e rendendo più complesso l'accesso ai servizi. La sfida attuale, per i centri anti-violenza e per la rete dei servizi, è trasformare questa maggiore attenzione e il nuovo quadro normativo in capacità operativa, consolidando protocolli condivisi, rafforzando la formazione degli operatori, garantendo continuità nelle risposte di protezione e sostegno e sviluppando interventi preventivi mirati nei territori.

Com'è la violenza vista dagli uomini? In cosa nota una marcata differenza tra la loro percezione e quella delle donne?
Molti uomini esprimono da un lato il desiderio di essere parte del cambiamento, dall'altro il senso di frustrazione di sentirsi accomunati, per genere, agli autori dei maltrattanti. Nella pratica gli ostacoli culturali sono molti: scarsa alfabetizzazione emotiva, modelli relazionali rigidi e difficoltà a riconoscere precocemente comportamenti di controllo o prevaricazione. La violenza viene ancora interpretata da molti come un episodio isolato o legato alla sfera privata, anziché come l'esito di dinamiche culturali e relazionali che si costruiscono nel quotidiano. È fondamentale lavorare anche con gli uomini in modo strutturato: coinvolgerli in percorsi specifici di consapevolezza, responsabilizzazione e gestione delle emozioni; contrastare gli stereotipi che alimentano la minimizzazione; costruire spazi sicuri dove possano interrogarsi sui propri comportamenti prima che diventino agiti violenti. La prevenzione non può essere affidata solo alle donne che chiedono aiuto: richiede un coinvolgimento e un investimento mirato sugli uomini, sui modelli di maschilità e sulle competenze relazionali, affinché il cambiamento sia realmente sostenibile.

Ci sono degli stereotipi che sopravvivono nella comune mentalità, nonostante le campagne di sensibilizzazione?
Le analisi di Istat, Oms e Un Women mostrano che alcuni stereotipi continuano a ostacolare il riconoscimento della violenza. Tra i più diffusi l'idea che se una donna resta in una relazione allora "in fondo accetta la situazione"; la convinzione che linguaggi e battute sessiste siano divertenti e normali; e la narrazione della violenza come "raptus", quando invece gli studi dimostrano che si tratta di comportamenti ripetuti e intenzionali. Questi stereotipi non sono innocui: spostano l’attenzione sulla donna invece che sull'autore, alimentano colpa e isolamento e ritardano la richiesta di aiuto. Le linee guida internazionali sottolineano anche l’importanza di utilizzare un linguaggio consapevole, che non presenti il possesso, il controllo o la gelosia come forme di amore profondo, perché queste rappresentazioni legittimano dinamiche di dominio e rendono meno riconoscibili i segnali precoci di violenza. Secondo gli organismi internazionali, il cambiamento passa da un'educazione precoce alle relazioni, al rispetto e alle competenze emotive.

Molte donne non lasciano l'aggressore perché economicamente dipendenti. Come si può aiutarle a uscire da questi contesti?
La violenza economica è una delle forme di controllo più incisive e al tempo stesso meno riconosciute, perché spesso si intreccia con dinamiche quotidiane considerate normali. Può manifestarsi in modo diretto, ad esempio, impedendo l'accesso al denaro, controllando ogni spesa o sottraendo risorse, oppure in modo indiretto, ostacolando l'accesso al lavoro, scoraggiando la formazione, sabotando opportunità professionali o vincolando la donna alla dipendenza economica attraverso debiti e obblighi non condivisi. Per ridurre realmente questo rischio servono politiche che garantiscano condizioni concrete di autonomia: accesso al lavoro stabile, sostegni abitativi, percorsi formativi e strumenti che permettano alle donne di ricostruire una propria indipendenza materiale. Nei centri anti-violenza lavoriamo proprio su questo: accompagniamo le donne in un percorso di uscita che non riguarda solo la protezione, ma la costruzione di un nuovo progetto di vita, fatto di autonomia economica, rafforzamento psicologico e ricostruzione di reti familiari e sociali. L'autonomia è il primo fattore di protezione ed è una condizione essenziale per interrompere la violenza in modo duraturo.

Con l'introduzione del Codice Rosso nel 2019 è cambiato qualcosa?
Il Codice Rosso ha introdotto un cambiamento rilevante sul piano normativo: ha stabilito tempi più rapidi per l'ascolto della donna da parte dell’autorità giudiziaria e ha ampliato il numero dei reati perseguibili d'ufficio, includendo forme di violenza prima meno riconosciute come lo stalking, la violenza domestica reiterata, la diffusione illecita di immagini intime e le lesioni permanenti al viso. Questo ha migliorato l'emersione dei casi e la possibilità di intervenire nelle situazioni ad alto rischio. Tuttavia, le linee guida nazionali e l'esperienza dei centri anti-violenza mostrano che la legge da sola non è sufficiente: l'efficacia del Codice Rosso dipende dalla capacità dei servizi di lavorare in rete, dalla formazione specifica di chi accoglie le denunce e dalla possibilità per le donne di accedere realmente alla giustizia senza ostacoli, tempi lunghi o richieste ripetute di ricostruire il trauma. La tempestività non può limitarsi all'intervento repressivo: deve comprendere ascolto competente, valutazione del rischio, protezione immediata, accesso a misure di supporto e un accompagnamento costante lungo tutto il percorso. Solo così il Codice Rosso può diventare uno strumento reale di tutela e non un passaggio formale.

Pensate che ci sia un modo per aiutarle più concretamente?
Per aiutare in modo concreto bisogna lavorare sui pilastri che rendono davvero possibile l'autonomia: formazione, lavoro e casa. La formazione da sola non basta se non crea reali opportunità professionali; e il lavoro rischia di essere precario o insostenibile se non c’è un percorso di preparazione, orientamento e accompagnamento. Un esempio molto efficace è il progetto Electra di Fondazione Asilo Mariuccia, che mette insieme tutte queste dimensioni: bilancio delle competenze, orientamento personalizzato, formazione breve e spendibile, tutoraggio e tirocini retribuiti. È un modello che funziona perché permette alle donne di rafforzarsi sia sul piano professionale sia su quello relazionale, creando le condizioni per un inserimento lavorativo stabile e non improvvisato.

Poi c’è il tema della casa, che è il terzo pilastro, spesso il più delicato. Senza una soluzione abitativa sicura, ogni percorso rischia di interrompersi. Servono protocolli condivisi e collaborazioni con i territori: alloggi ponte, cohousing protetti, contributi all'affitto, garanzie per la cauzione, accordi con Comuni e privati. Avere una casa non è solo un'esigenza materiale: è ciò che permette a una donna di sentirsi al sicuro e di consolidare la propria autonomia. In sintesi, la concretezza passa da qui: formazione e lavoro come motore del cambiamento, e la casa come condizione che lo rende davvero possibile. Quando questi elementi si intrecciano la fuoriuscita dalla violenza diventa reale e sostenibile.

C'è una tipologia di donne che si rivolge ai centri anti-violenza?
No, tutte le principali ricerche confermano che la violenza è un fenomeno trasversale: non riguarda un solo profilo di donna e non dipende da ceto sociale, età, nazionalità, background culturale o livello di istruzione. I dati Istat e Oms mostrano che la violenza è presente in tutte le fasce di età - dalle adolescenti alle donne anziane - e coinvolge sia donne con lavori altamente qualificati sia donne senza occupazione stabile. Le percentuali di violenza non variano in modo significativo tra donne con diversa istruzione, reddito o contesto familiare. Anche la nazionalità o l'appartenenza religiosa non sono fattori determinanti: la violenza si manifesta in tutte le comunità, con modalità e intensità differenti, ma senza escludere nessun gruppo. Nei centri anti-violenza arrivano, quindi, storie molto diverse: ragazze giovanissime e donne mature, professioniste e casalinghe, italiane e straniere, donne con figli piccoli o adulte che decidono di chiedere aiuto dopo anni. Ciò che fa davvero la differenza non è il profilo della donna, ma la rete che trova intorno a sé. Dove il territorio è informato, accessibile e non giudicante, le donne riescono a intercettare prima i segnali di violenza e trovano il coraggio di rivolgersi ai servizi.

Le donne che arrivano nei vostri centri sono state aiutate a fuggire o lo hanno scelto in autonomia?
Ci sono donne che arrivano accompagnate da amiche, sorelle, vicine di casa, colleghe o familiari che rappresentano un sostegno e un primo punto d'appoggio. E poi ci sono donne che trovano da sole il coraggio di varcare la soglia, quasi sempre dopo aver maturato a lungo la decisione di chiedere aiuto. Ma sappiamo che l'inizio di un percorso di fuoriuscita non può prescindere da una scelta personale. Anche quando una donna è sostenuta da una rete affettiva o dalle istituzioni, il passo decisivo resta sempre il suo: è lei che decide di chiedere aiuto, di mettersi in sicurezza, di immaginare un futuro diverso. Il supporto esterno può facilitare, accompagnare e proteggere, ma non può sostituire la volontà della donna di riprendere in mano la propria vita. Il nostro compito, come centro anti-violenza, è proprio questo: accogliere senza giudicare, accompagnare senza sostituirci, creare le condizioni perché la scelta della donna diventi possibile e sostenibile. Ogni percorso è diverso, e richiede ascolto competente, protezione, informazioni chiare e una rete pronta a collaborare.

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