L'impero russo non vive di economia, ma i dati interni testimoniano difficoltà crescenti. La priorità degli investimenti per la macchina bellica ha penalizzato altri settori
di Maurizio Perriello© Afp
Diciamo subito una cosa: nessuna crisi economica convincerà Vladimir Putin o qualsiasi leader russo ad accettare una sconfitta nella guerra d'Ucraina. La Russia è un impero e utilizza l'economia come uno strumento di potenza, e non come il fine ultimo della politica. Appurato questo, Mosca non se la passa bene. L'economia della Federazione è stata già da tempo convertita in economia di guerra ed è sempre più ostaggio delle sanzioni occidentali. Per la prima volta dall’invasione su larga scala dell'Ucraina, le attività economiche non militari hanno registrato una contrazione, le banche hanno approntato piani per affrontare la crisi finanziaria e le società energetiche temono una forte riduzione delle esportazioni di petrolio via mare. Non solo: i principali gruppi industriali hanno effettuato grossi tagli al personale e la circolazione di denaro è sempre più inceppata a causa del dirottamento quasi totale degli investimenti nella macchina bellica.
L'intensificarsi delle difficoltà economiche ha spinto gli Stati Uniti e le loro province europee ad alzare la pressione sul Cremlino, proponendo accordi e negoziati sul futuro dell'Ucraina. Per la prima volta dall’inizio del conflitto, checché ne dica, Putin potrebbe non trarre vantaggi dal prendere tempo e proseguire i combattimenti. Lo testimonia, ad esempio, il movimento di truppe russe senza precedenti registrato nelle ultime settimane nel Paese invaso. La pressione economica resta la migliore leva che l'Occidente conserva per mettere in difficoltà Mosca, soprattutto in un frangente in cui la Federazione si sta consegnando sempre più alla Cina, vendendole idrocarburi e materie prime a prezzo scontato, a rate e per giunta in yuan. Una sconfitta strategica che l'Orso non può permettersi, pena il rischio di rivoluzione o rovesciamento politico. Come sempre accaduto nella storia in caso di umiliazione all’estero.
Comprendere il vero stato dell'economia russa richiede un'indagine approfondita. E qui in Occidente non è affatto facile accedere a dati certi, che non siano cioè né catastrofici né propagandistici. Sappiamo innanzitutto con certezza che a fine agosto 2025 gli arretrati salariali ammontavano a 1,64 miliardi di rubli (quasi 18 milioni di euro). Anche l'ultimo report sul Pil rivela un dato interessante: nel secondo trimestre 2025, l'economia è sfuggita di poco a una recessione tecnica (definita come due trimestri consecutivi di contrazione del Prodotto interno lordo), con una crescita registrata di appena lo 0,1% dopo un calo dello 0,6% nel primo trimestre. Si tratta della prima diminuzione di questo tipo dall'inizio della guerra. Escludendo il settore militare in forte espansione, il resto dell'economia russa appare insomma in recessione.
Uno dei "termometri" più efficaci per guardare all'economia civile russa e allo stato delle famiglie dei centri medio-grandi è senza butto il mercato auto. Ebbene, le vendite di vetture nuove sono diminuite di quasi il 30% durante il primo semestre dell'anno rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Un chiaro segnale di difficoltà per la domanda dei consumatori. La contrazione dell'attività economica va però oltre le case automobilistiche. A luglio, l'indice dei responsabili degli acquisti di S&P Global per il settore manifatturiero russo - che monitora gli ordini delle aziende dai loro fornitori e dove un valore inferiore a 50 indica una contrazione - si è attestato a livello 47, il valore più basso da marzo 2022.
Le difficoltà affrontate da famiglie e imprese minacciano ora di contagiare il settore bancario. Il tasso di mancato pagamento di tutti i prestiti ai privati (come mutui, finanziamenti e carte di credito) sta aumentando rapidamente, con un'impennata del 32% per quanto riguarda VTB, la seconda banca della Federazione, dall'inizio di quest'anno. I tassi di insolvenza complessivi rimangono bassi, ma sono ingannevoli: in Russia, le famiglie che hanno difficoltà a rimborsare i prestiti spesso negoziano un periodo di grazia con gli istituti invece di dichiararsi inadempienti.
Le difficoltà economiche minacciano inoltre il settore immobiliare. A maggio, la Banca Centrale Russa ha avvertito che il rischio di un crollo del mercato immobiliare aveva raggiunto il livello più alto da dieci anni a questa parte. Fino a luglio, i prezzi delle nuove case sono aumentati di quasi un quarto nel centro di Mosca, quasi tre volte l'inflazione nello stesso periodo, alimentando il timore di aumenti potenzialmente insostenibili. Parallelamente, le famiglie russe stanno contraendo mutui per l'acquisto di una casa per una durata media da record (26 anni). Nel contesto russo, dilazionare il rimborso dei prestiti su termini così inediti è segnale di crescente indebitamento e difficoltà finanziarie.
Anche in questo caso, occorre una premessa: le sanzioni economiche non producono mai effetti apprezzabili sui soggetti imperiali, inclusa la Russia, perché vivono e ragionano in maniera estremamente differente rispetto a noi economicisti europei. L'effetto più pericoloso delle sanzioni non è economico, ma socio-politico: esse mirano ad aumentare il malcontento popolare soprattutto in quei segmenti già “arrabbiati” col Cremlino, con l’auspicio di aumentare le divisioni interne e promuovere rivolte e disordini. Mosca, inoltre, ha costruito una rete di evasione delle sanzioni triangolando le spedizioni con Paesi terzi, soprattutto in Asia centrale, che le consente di commerciare comunque con l’Europa. Ecco perché le recenti sanzioni annunciate da Donald Trump contro questi Paesi terzi preoccupano non poco il Cremlino. Ad agosto, l'amministrazione Usa ha imposto dazi aggiuntivi del 25% all'India per punire l'acquisto di petrolio russo. Da quando gli Stati europei hanno ridotto le importazioni di greggio russo dal 2022, l'India è diventata la principale destinazione di spedizioni marittime dell’oro nero di Mosca. Le raffinerie indiane assorbono circa 1,8 milioni di barili al giorno di greggio russo, pari a circa 40 miliardi di dollari di entrate annue per le società della Federazione.
La Cina sembra sempre meno disposta ad aumentare le importazioni di greggio dell’ingombrante vicino, per non diventarne oltremodo dipendente. Mosca deve inoltre affrontare i sempre più frequenti attacchi ucraini alle proprie raffinerie e ai depositi di idrocarburi. Ma non è finita qui. Il settore petrolifero russo sta affrontando altri due ostacoli. In primis, il prezzo del petrolio di riferimento russo per gli Urali è sceso di oltre il 20% dal picco raggiunto all'inizio di gennaio, con un impatto significativo sulle entrate statali. In secondo luogo, il rublo si è apprezzato del 41% rispetto al dollaro da inizio anno, incidendo ulteriormente sulle entrate petrolifere una volta convertite in valuta locale. Per contribuire a ricostituire le casse dello Stato, la Banca Centrale sta cercando disperatamente di arginare qualsiasi ulteriore apprezzamento. Per limitare la domanda di rublo, il mese scorso la banca ha abolito le regole che imponevano agli esportatori russi di rimpatriare e convertire i guadagni in valuta estera.
Per non restare invischiato in una crisi molto pericolosa in tempo di guerra, il Cremlino sta ricorrendo a “vecchie" tattiche. Il valore dei beni confiscati dal governo ad aziende e privati è triplicato negli ultimi 12 mesi e ha raggiunto un totale di 50 miliardi di dollari dall'inizio della guerra. Uno dei sequestri più grandi è stato effettuato a giugno, quando un tribunale di Mosca ha stabilito che lo Stato federale poteva nazionalizzare il secondo aeroporto più grande del Paese, lo scalo Domodedovo di Mosca. A sostegno della causa, il procuratore generale ha sostenuto che i proprietari dell'aeroporto "stavano cospirando contro il Paese detenendo passaporti stranieri". La mossa ha scosso gli ambienti imprenditoriali russi, dove i passaporti europei e statunitensi sono diffusi.