Quarant’anni dopo

Live Aid, il giorno in cui il mondo si fermò per vedere e ascoltare

Era il 13 luglio 1985 quando due palchi, uno a Londra e uno a Philadelphia, unirono milioni di persone in diretta mondiale per l’Africa. Oggi quell’evento resta un punto di non ritorno per la musica, la televisione e la coscienza collettiva

di Domenico Catagnano
11 Lug 2025 - 12:55
Bob Geldof © IPA

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C’è un prima e un dopo, e il confine è il 13 luglio 1985. Quel giorno, con il Live Aid, il mondo sperimentò per la prima volta la potenza della musica come linguaggio globale in tempo reale e sembrò davvero parlare con una sola voce. Due palchi, uno al Wembley Stadium di Londra e l’altro al JFK Stadium di Philadelphia, collegati via satellite, offrirono uno spettacolo senza precedenti: sedici ore di diretta no-stop, visibile in circa 150 Paesi, con un’audience stimata in 2,5 miliardi di persone. Nessuno aveva mai osato tanto. Nessuno lo ha più eguagliato.

Live Aid, le immagini dell'evento simbolo della musica anni 80

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Un prima e un dopo, dicevamo. Un prima fatto di concerti separati, di eventi locali, di dirette frammentate. Un dopo fatto di un pianeta che si scopre unito davanti a uno schermo, per ore, in tempo reale, per una causa comune. Era nato tutto dall’urgenza umanitaria di portare aiuti all’Etiopia, devastata dalla carestia. Ma il Live Aid, ideato da Bob Geldof e Midge Ure, andò ben oltre: fu un’esplosione generazionale che unì gli idoli del rock in una maratona emotiva e musicale. Non c’erano social, eppure il mondo si parlò, in diretta e senza filtri. Per la prima volta, la tv abbandonava la scaletta tradizionale e si piegava a un evento totale, abbattendo fusi orari e confini politici.

Sul palco si alternarono i giganti della musica, alcune esibizioni rimangono memorabili, altre un po' meno. Tra questi Queen, U2, David Bowie, Led Zeppelin, The Who, Elton John, Madonna, Bob Dylan, Mick Jagger, Paul McCartney... Ma al di là delle performance fu la sensazione di essere parte di qualcosa di più grande a segnare chi c’era: la musica non era solo intrattenimento, era un megafono per una crisi umanitaria che fino ad allora molti ignoravano.

Ciò che colpì non fu solo la qualità artistica ma il senso collettivo di partecipazione. Chi era giovane allora, e c’era, lo ricorda come un battesimo culturale: l’idea che si potesse cambiare qualcosa semplicemente con l'“esserci”. Il Live Aid non risolse la fame nel mondo, ma accese riflettori, sensibilizzò coscienze, creò un precedente. Raccolse oltre 125 milioni di dollari in donazioni. Ma, più ancora dei soldi, lasciò un’impronta culturale profonda: insegnò che l’arte poteva mobilitare e che i media, se usati bene, potevano unire invece che dividere.

La tv, quel giorno, non fu spettatrice, ma protagonista. Cambiò linguaggio, ritmo, struttura. Abbandonò la scaletta classica e si fece flusso, evento, esperienza. Il Live Aid fu, a tutti gli effetti, il primo grande reality globale, molto prima dell’avvento di Internet o dei social. E segnò una generazione che si scoprì coinvolta, partecipe, chiamata a esserci.

Oggi, quarant’anni dopo, resta molto più di un concerto. È memoria collettiva, mito fondativo di un nuovo modo di raccontare. Una linea di confine tra due epoche, l’istante in cui la musica si fece storia, e la televisione si fece mondo.

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