dal 27 maggio al 1° giugno

Liv Ferracchiati al Piccolo Teatro con "Stabat Mater", secondo capitolo della sua trilogia sull'identità

Al Teatro Grassi lo spettacolo presentato per la prima volta nel 2017 e ora riproposto in una versione completamente rinnovata

22 Mag 2025 - 16:31
 © Luca Del Pia

© Luca Del Pia

Dopo aver attraversato, con "Hedda. Gabler" e "Come tremano le cose riflesse nell'acqua", le parole di Ibsen e Čechov, Liv Ferracchiati torna a Milano al Piccolo Teatro, di cui è artista associata. E porta "La morte a Venezia" (fino al 25 maggio al Teatro Studio Melato) e poi "Stabat Mater", secondo capitolo della Trilogia sull’identità. Lo spettacolo è in scena al Teatro Grassi, dal 27 maggio al 1° giugno.

"Un raro esempio di riuscita commedia italiana dal sapore anglosassone. All’interno di una struttura drammaturgica complessa e gestita con mano ferma, spiccano dialoghi credibili e incalzanti, ricchi di una destrezza ironica che ricorda il primo Woody Allen": con questa motivazione, nel 2017 la giuria del Premio Hystrio Scritture di Scena scelse come vincitore Liv Ferracchiati e il suo "Stabat Mater". Ora lo spettacolo viene presentato in una forma diversa, con un nuovo cast e un allestimento completamente rinnovato nella volontà di far rivivere un progetto che, in anni non sospetti, aveva trattato tematiche politicamente e socialmente centrali quali l’autodeterminazione e la libertà d’espressione identitaria.

La storia che viene raccontata è quella di uno scrittore trentenne alle prese col diventare adulto e il trovare una collocazione nel mondo. Una collocazione che viene cercata nella relazione con l’altro e nell’emancipazione dalla madre, figura fagocitante e, per lui, simbiotica. La scrittura è lo strumento attraverso il quale performa se stesso inventando nuove possibilità, artistiche ed esistenziali, creando cortocircuiti di convenzione. Tra le sue parole, nel modo di veicolarle, e in quelle delle due donne chi si relazionano a lui vedremo franare molti degli stereotipi maschili più tossici. Il lavoro è un invito a pensare noi stessi come autori della nostra “forma”, concependo i tasselli identitari che ci compongono non come una gabbia, ma come strumenti per comunicare con l’altro.

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