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Giovani e lavoro, sette su dieci preoccupati per il proprio futuro

Le giovani donne e i residenti al Sud sono i più preoccupati per il loro futuro lavorativo. Ma la questione appare una piaga generazionale

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Precari, sottopagati, maltrattati.

Sono tanti i giovani che, una volta entrati nel mondo del lavoro, temono di ritrovarsi in una se non in tutte queste condizioni. Insomma, terminati i festeggiamenti del Primo Maggio restano le paure delle ragazze e dei ragazzi che si accingono a cercare un’occupazione. In cima a tutte c’è quella di non avere una paga sufficiente a soddisfare i propri bisogni: così per 1 su 2. Pochi di meno pensano che le offerte disponibili, prevalentemente “a scadenza”, non consentano di programmare il futuro. E quasi 1 su 5, per conservare il lavoro, si prepara psicologicamente a dover subire ricatti, condizionamenti e vessazioni. Una sceneggiatura, che sembra uscita da un film drammatico, scritta direttamente da loro: gli oltre 1.700 giovani tra i 15 e i 35 anni interpellati dal Consiglio Nazionale dei Giovani e dall’Agenzia Italiana per la Gioventù attraverso il rapporto “Giovani 2024: Bilancio di una Generazione”.

 

Quanto detto finora, inoltre, è una “lettura” di dettaglio. Perché, come segnala un’analisi del report effettuata dal portale Skuola.net, la preoccupazione di rimanere delusi sul fronte lavorativo, in generale, è un qualcosa di molto più diffuso e riguarda circa 7 intervistati su 10: il 25,4% si dice “molto preoccupato”, il 43% “abbastanza preoccupato”. Un dato che, isolando la componente femminile, sale ulteriormente, fino a coprire il 75,8% del campione. Mentre dal punto di vista geografico i timori maggiori risiedono al Sud, dove la preoccupazione attanaglia il 71,1% dei giovani, quando al Nord sono “solo” il 65,3%. Di contro, solamente il 19,4% risulta “poco preoccupato” e appena il 7,1% “per niente preoccupato”.

 

Il mondo del lavoro secondo la GenZ

 

Ancora più emblematico, come fatto all’inizio, è però passare in rassegna l’intera classifica delle caratteristiche del lavoro che immaginano per loro le nuove generazioni. Come potrebbe essere? Innanzitutto sottopagato: lo dice il 54,7% del campione. Dopodiché, c’è il rischio che sia per parecchio tempo instabile o precario (47,3%). In terzo luogo, è facile che non sia in linea con le proprie competenze (36,5%). Se non direttamente dequalificato (28,4%), senza perciò richiedere affatto il bagaglio formativo eventualmente accumulato. Ma sono tanti (35%) anche quelli che sono spaventati dalla prospettiva di rimanere del tutto disoccupati a lungo.

 

Vengono messi in coda, invece, elementi quali: dover lavorare nei giorni festivi e/o in orari notturni (8,6%) o essere costretti a trasferirsi in un’altra regione o nazione (13,8%). Allontanando perciò l’idea, spesso al centro della narrazione sulle nuove generazioni, di  ragazze e ragazzi svogliati, fannulloni o “schizzinosi”.

 

Ma non finisce qui il viaggio tra le tenebre del mondo del lavoro. Visto che anche l’ipotetica quotidianità fa paura: ben il 17,5% degli intervistati ha messo in conto di dover subire una forte pressione che, passando per maltrattamenti vari (materiali o psicologici), può arrivare persino alle molestie. Uno spauracchio, questo, che riguarda soprattutto le giovani donne, raggiungendo il 24% tra le sole intervistate; mentre tra i coetanei maschi ci si ferma al 9,7%.

 

Se le "conoscenze" contano più delle capacità

 

Una visione, quella appena descritta, che potrebbe essere figlia di una spiccata sensibilità della Generazione Z per tali tematiche. Non a caso tra le cose a cui dovrebbe badare di più un datore di lavoro per loro ci dovrebbero essere: le tutele e i diritti dei dipendenti, citate dal 39,6% degli intervistati; il rispetto per le pari opportunità, indicate dal 26,3%; il contrasto alla “violenza” sul lavoro e l’attenzione alla sicurezza sul lavoro, che raccolgono il 12,8% delle menzioni. Aspetti secondari solo a cose quasi scontate e comuni a tutte le generazioni, come: un salario decente, messo nella ricetta del buon lavoro dal 58% dei giovani interpellati; la stabilità contrattuale con il conseguente contrasto alla precarietà (44,9%); un maggiore riconoscimento del merito (34,5%). Proprio quel che, per loro, rischia di mancare di più.

 

Alla questione del merito, in particolare, per la GenZ andrebbe riservata un’attenzione specifica. Visto che, attualmente, a detta delle ragazze e dei ragazzi, l’individualità continua a essere insidiate dalle conoscenze e dalle relazioni sociali che uno ha. Nell’indicare i fattori che “regolano” l’ingresso di un giovane nel mondo del lavoro queste due variabili sono praticamente alla pari: per il 37,8% servono soprattutto le capacità/competenze personali, per il 37,7% è necessaria la “raccomandazione”. Ma tra i giovani-adulti (25-35 anni), quindi sul “mercato” da più tempo, l’equilibrio tende a spostarsi verso il disincanto, portando a collocare le segnalazioni al primo posto tra i fattori che agevolano l’accesso al lavoro: ne è convinto il 39%; va diversamente nel campione più giovane (15-24 anni) laddove ancora si pensa prevalgano le capacità individuali, determinanti per il 39,7%.

 

La volontà e la tenacia, invece, darebbero meno chance: le considera centrali il 25,1%. Tutto sommato marginale è anche la posizione sociale della famiglia di origine: farebbe la differenza per il 19,4%. Più o meno lo stesso peso (19,3%) hanno l’adattabilità e la flessibilità del campione occorre inoltre essere dotati di adattabilità e flessibilità. Il 16,1% mette nel paniere anche serietà e affidabilità, il 15,4% l’immagine e la capacità di presentarsi.

 

In coda, i giovani collocano la propensione alla subalternità/sottomissione e alla spregiudicatezza/carrierismo (con il 6,7% e il 6,5% delle citazioni), ovvero l’adesione a una sottocultura di impresa che privilegia il controllo individuale alla qualità complessiva delle relazioni tra le risorse umane. Il segno ulteriore che la GenZ mal si adegua alla logica del “compromesso”.

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