Una storia che è "la fine del mondo"

Marco Buttu, il ricercatore sardo che ha trovato sé stesso tra i ghiacci dell'Antartide

Vivere con altre 12 persone e vedere davanti solo la neve, come una gigantesca pagina bianca da scrivere. La storia di Marco si snoda in tre missioni e in un progetto di ricerca che gli ha fatto capire molto anche di lui stesso

di Manuel Santangelo
01 Set 2025 - 07:02
 © Ufficio stampa

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Marte Bianco, si intitola il libro sulla storia di Marco Buttu, l'uomo che ha vissuto nelle zone più impervie dell'Antartide. Ed effettivamente, ascoltando i suoi resoconti, non si può fare a meno di pensare al protagonista di The Martian, il film di Ridley Scott in cui Matt Damon era costretto a trovare un modo per sopravvivere nella sfacciata desolazione del Pianeta Rosso. Cambia il colore dominante ma non la difficoltà dell'impresa per Buttu, che ha vissuto in quasi totale solitudine tre anni, in un luogo inospitale persino per i batteri. Con lui solo altri dodici coraggiosi ricercatori, gli unici esseri umani nel raggio di 600 chilometri, gli unici disposti a provare l'esperienza estrema di convivere con un termometro che segna senza pietà anche meno ottanta gradi e con un grande vuoto pneumatico garantito da cento giorni di fila senza luce del sole. L'aria è costantemente secca, mentre l'ossigeno rimane quasi un lusso, visto quanto poco ce n'è in questa atmosfera davvero "marziana".

Marco Buttu, la storia del ricercatore che ha trovato il suo posto in Antartide

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Una storia partita dalla Sardegna

 Tre missioni di dodici mesi l'una, la prima nel 2018 e l'ultima nel 2024. 27 mesi totali di quasi completa solitudine. Un lungo continuum non interrotto nemmeno dalle stagioni, in un luogo dove il candido panorama non si sporca se non per brevi intervalli, quando magari ci pensa una spettacolare aurora boreale a regalare colore alla tavolozza. Condizioni particolarmente difficili per chi è nato in Sardegna, sebbene lontano da quelle spiagge che di solito si associano all'isola. Gavoi, nel cuore della Barbagia di Ollolai. Da questo paesino di poco più di duemila abitanti in provincia di Nuoro è partito il viaggio (anche spirituale) di Marco Battu, che nasceva come ingegnere elettronico. Un instancabile pellegrinaggio che lo ha portato fino alle colonne d'Ercole della civiltà, lì dove tutto sfuma nel bianco candido della neve.

Fagocitato dal "rumore bianco"

 Si dice che il bianco contenga tutti i colori dello spettro elettromagnetico, quasi fosse il risultato di un'indigestione di arcobaleni. Ingloba ogni cosa quindi, rischiando di fagocitare anche chi ne resta troppo affascinato. È successo quasi letteralmente anche a Buttu, che apre il suo libro proprio con il racconto del "whiteout". Era una mattinata di febbraio e, nonostante il vento sferzante che arrivava a toccare i trenta chilometri, la visibilità era buona. Abbastanza per allontanarsi un po', lo stretto necessario per scattare qualche foto, almeno apparentemente: "Mi ero allontanato di appena 5 metri dai cavi elettrici che vanno dalla base ai container dove abbiamo la strumentazione, con l’idea di scattare qualche foto. Improvvisamente non ho visto più nulla: il vento alzava neve e ghiaccio tutt’intorno a me e la base era come scomparsa", ha raccontato Marco a Wired. Nel suo diario si spinge addirittura a parlare di un mondo dove "tutto è statico, bianco e piatto, in ogni direzione". Su questo gigantesco foglio bianco anche i segni disegnati dall'uomo, le sue orme, scompaiono ed è un attimo perdersi. Il "whiteout" è proprio questo: non avere più la vista e l'orientamento mentre un solo colore riempie gli occhi. Solo camminando piano "a stella" Marco Buttu si è alla fine salvato, riuscendo così a vergare quelle pagine intonse con pensieri più durevoli delle tracce lasciate sul terreno.

Una delle foto più belle contenute nel libro non è tuttavia una di quelle scattate miracolosamente quel giorno. È uno scatto dello stesso Buttu, a gambe incrociate, in piena meditazione: la parte sinistra del corpo, quella esposta al vento, è più congelata rispetto alla destra in un esempio estremo del cosiddetto "effetto windchill" ma soprattutto della grande adattabilità del corpo umano. In quell'istantanea il nostro appare infatti a torso nudo, in uno dei luoghi più estremi della Terra eppure in perfetta comunione con ciò che ha intorno. Proprio conoscere i limiti dell'essere umano è in fondo uno degli obiettivi collaterali dell'intera missione, in cui anche chi fa ricerca scientifica diventa a sua volta oggetto di una ricerca.

Una sfida anche per la mente

Una sfida anche per la mente  Dodici persone sole in una base nel bel mezzo dell'Antartide: a pensarci bene è quasi lo stesso antefatto di quel grande classico dell'horror che era La cosa, il film diretto dal maestro del brivido John Carpenter. Anche senza le forme di vita extraterrestri della pellicola del 1982, quello che può accadere laggiù è comunque affascinante, non solo e non per forza unicamente per la scienza. Studiare le dinamiche di gruppo e le conseguenze di una convivenza così estrema è un qualcosa di particolare, che ci dice molto anche su come ci interfacciamo gli uni con gli altri. Non a caso Buttu parla dell'adattarsi alle dinamiche sociali di quella che è a tutti gli effetti una bolla come una delle parti più difficili dell'intera esperienza: "Siamo chiamati a compilare molti questionari sull’umore, sulla convivenza, sui conflitti", racconta Buttu a La Nuova Sardegna, paragonando la quotidianità nella base Concordia a quella in una stazione spaziale. Non è un caso che i dati vengano raccolti e analizzati alla fine proprio dall'Agenzia Spaziale Europea. In fondo gli esseri umani più vicini da dove lavora Marco distano come detto 600 chilometri  (si tratta dei colleghi russi che risiedono nella base di Vostok). Duecento in più di quelli che separano la Terra dalla Stazione Spaziale Internazionale.

Più lontani degli astronauti

   Insomma, gli astronauti sono più vicini alla civiltà di Buttu e degli altri ricercatori e non è un modo di dire. Come racconta lo stesso Marco infatti, a prescindere dai chilometri, la base Concordia risulta davvero più isolata di qualunque altro luogo abitato da una forma di vita umana. Mentre per i novelli Buzz Aldrin si può organizzare potenzialmente una missione di recupero in qualunque momento alla bisogna, raggiungere quell'anfratto di Antartide può essere complesso se non proprio impossibile in alcuni periodi dell'anno: per muoversi bisogna aspettare infatti per forza la stagione estiva, visto che l'impossibilità di garantire una pista di atterraggio sicura impedisce anche agli aerei progettati per volare a -60 gradi di raggiungere questa piccola comunità scientifica. A certe latitudimi si vive insomma con la costante necessità di non abbassare mai la concentrazione, perché ogni scivolone, ogni piccolo sbaglio di valutazione può risultare fatale: "Mancano colori e profumi, per cento giorni sparisce anche il Sole. E un errore banale può costare la vita perché, se capita un incidente, nessuno può venire in soccorso", scrive Marco nel suo libro e allora almeno a noi profani viene il dubbio se non abbia davvero ragione suo padre a considerarlo "un pazzo".

Lo yoga per non perdere la tranquillità

  In realtà Marco Buttu è tutto meno che matto e ad assicurarlo ci sono anche i moltissimi test psicologici che ha dovuto superare prima di iniziare questa esperienza altamente probante. Va poi aggiunto che, una volta in Antartide, Marco e i suoi colleghi vengono seguiti da dei professionisti anche per evitare crolli nervosi e garantire una buona salute mentale. È importante non perdere come detto mai la tranquillità:  "Il punto è dimostrare di essere in grado di gestire lo stress dello stare confinati in un piccolo gruppo per così tanto tempo", racconta l'esploratore, raccontando quanto sia importante imparare a non farsi prendere dall'istinto.

Ad affrontare tutto con la testa giusta probabilmente ha contribuito per Marco anche lo yoga e la meditazione, che ha insegnato persino ai colleghi facendo diventare certi momenti di raccoglimento degli autentici riti collettivi di purificazione dalle tensioni. La capacità di allentare le tensioni e disinnescarle è una delle principali skill che il nostro ingegnere sardo si porta a casa, assieme a una rinnovata presa di coscienza di quanto siano importanti le piccole cose. Un convinzione che rende la vita di Marco migliore anche in quegli intervalli di tredici mesi, tra una missione e l'altra, in cui torna a casa da sua moglie Michelina (con cui si conosce dalla scuola) e dai suoi cari. Mentre il babbo, come detto, lo prende bonariamente per un pazzo la mamma comprende meglio a suo dire la sua sete di avventura, condividendola in gran parte. Avere il sostegno della famiglia è fondamentale per Marco, che per mesi si trova a estraniarsi dalla sua esistenza, sebbene rispetto alla prima missione le cose siano migliorate anche in termini di connessione internet.

Come Marco è arrivato in Antartide

  Basta solo a Marco non indugiare troppo nella nostalgia, perdendosi nel ricordo del mare, dei colori e della sua isola. Superato quello scoglio però, tutto è in discesa, almeno a sentire lui, che ad ogni ritorno nella base Concordia sente quasi di non essersene mai andato. Non male per uno che, per sua stessa ammissione, non aveva necessariamente il sogno di perdersi tra i ghiacci. Un po' come quel Robert Falcon Scott che, prima di diventare uno dei più grandi esploratori polari, non sapeva nulla di quei luoghi. A differenza di Scott, che diceva tuttavia di odiare addirittura il freddo, Buttu aveva almeno una diversa forma mentis, anche se ha ammesso di non essersi accorto al momento della candidatura che la missione sarebbe durata ben tredici mesi. Solo in un secondo momento infatti si accorse che sarebbe stato via da ottobre al dicembre sì, ma dell’anno successivo: "Inviai il curriculum, incurante del fatto che non fosse aggiornato e che sapessi pochissimo sull’Antartide. Non lessi neppure la parte della mail relativa alle modalità contrattuali e al compenso. Due ore più tardi, mi accorsi con stupore che mi avevano risposto: dissero che stavano valutando il mio curriculum. 'Sarà meglio che legga attentamente la mail', pensai. Così feci, e mi accorsi che non si trattava di due mesi, bensì di tredici: da novembre 2017 a dicembre 2018".

Un viaggio che ti cambia per sempre

  Da allora di acqua (ghiacciata) sotto i ponti ne è passata a fiumi. Marco Buttu non è più la stessa persona e non solo perché negli anni è passato dallo scrivere libri sul linguaggio di programmazione Python a pubblicare resoconti di mesi passati in condizioni da vero avventuriero. Tutto cambia e, anche nel immersi in quel "rumore bianco" di cui scriveva pure Don De Lillo, si può ascoltare una voce nuova. Quelle parole, rubate dal capolavoro letterario di Murakami Haruki Kafka sulla spiaggia, messe a introduzione del primo capitolo del diario di viaggio di Marco Buttu suonano quindi davvero perfette, anche per chiudere un cerchio come quello che abbiamo provato a tracciare in questre righe: "Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro che sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato".

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