La direttiva europea DAC7 e una recente sentenza della Cassazione cambiano le regole del gioco: chi vende troppo rischia di essere considerato un imprenditore, anche senza Partita Iva
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Vendere un cappotto o un vecchio vinile su una piattaforma second hand è diventata un'abitudine sempre più diffusa. Molti pensano che il mondo dell'usato sia, per definizione, libero da obblighi fiscali. Ma non è proprio così. La regola è semplice: chi vende saltuariamente oggetti personali non deve preoccuparsi del Fisco. Tuttavia, quando la cessione di beni diventa abituale e organizzata, la situazione cambia radicalmente. In quel caso, l'attività può essere considerata a tutti gli effetti "commerciale" e, dunque, soggetta a tassazione. Dal 2023, la direttiva europea DAC7 ha imposto un nuovo livello di trasparenza per i marketplace digitali, da Subito.it a Wallapop, da eBay a Vinted.
La norma non introduce nuove tasse, ma obbliga le piattaforme a comunicare all'Agenzia delle Entrate i dati dei venditori che, in un anno solare, superano almeno uno di questi due limiti:
- più di 30 vendite effettuate;
- incassi superiori a 2mila euro.
Raggiungere o superare questi parametri non significa automaticamente dover pagare le imposte, ma implica l'uscita dalla sfera dell'occasionalità: il Fisco potrà chiedere chiarimenti con le cosiddette lettere di compliance, una sorta di "avviso di cortesia" per invitare il contribuente a spiegare la natura dei propri guadagni. A rafforzare la linea tracciata da Bruxelles è intervenuta anche la Corte di Cassazione, che ha chiarito un principio fondamentale: la continuità delle vendite può essere sufficiente a configurare un'attività d'impresa, anche in assenza di Partita IVA. In pratica, se le vendite online diventano regolari e sistematiche, il privato si trasforma - agli occhi del Fisco - in un imprenditore a tutti gli effetti, con il conseguente obbligo di dichiarare i redditi e pagare le relative imposte.
Il concetto chiave è la frequenza delle operazioni. Un utente che svuota occasionalmente l'armadio non ha nulla da temere, ma chi pubblica nuovi annunci ogni settimana o vende grandi volumi di merce rischia di essere considerato un venditore professionale. Il numero delle transazioni diventa, quindi, il nuovo indicatore di reddito nascosto: una sorta di faro puntato che distingue chi fa pulizia in casa da chi, di fatto, gestisce un'attività commerciale camuffata.
La stretta sui marketplace non mira a colpire chi cerca di recuperare una parte del valore dei propri beni, ma chi utilizza le piattaforme come canale di guadagno sistematico. La Guardia di Finanza e l'Agenzia delle Entrate si concentrano sui casi in cui dietro la facciata del "seconda mano" si nascondono vere e proprie micro imprese non dichiarate, che sfuggono al pagamento di IVA e imposte sul reddito.
Se il proprio profilo assomiglia sempre più a un catalogo di negozio, il rischio di finire sotto la lente del Fisco è concreto. Il messaggio delle istituzioni è chiaro: vendere è lecito, ma la trasparenza è ormai obbligatoria. L'era dell'anonimato digitale, almeno per chi commercia online, può dirsi definitivamente conclusa.