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Franco Battiato, la storia vera dei gesuiti euclidei vestiti come bonzi alla corte degli imperatori della dinastia dei Ming

Il riferimento del cantautore siciliano è alla figura storica di Matteo Ricci, cartografo e matematico italiano, gesuita per l'appunto, che "ha regalato" Euclide e una compiuta concezione dell'universo alla Cina fra XVI e XVII secolo

Matteo Ricci
Ansa

"Gesuiti euclidei / vestiti come bonzi per entrare a corte degli imperatori / della dinastia dei Ming". Tra i numerosissimi versi musicati da Franco Battiato, questo, estrapolato dal celebre brano "Centro di gravità permanente", è forse uno dei più ricordati e citati. Un passo, come tantissimi altri, che esprime la grande caratura intellettuale del Maestro, ma che solo all'apparenza si mostra criptico e insondabile. Sì, perché (almeno) un gesuita euclideo, italianissimo, entrato a corte degli imperatori cinesi nel XVI secolo è esistito davvero: Matteo Ricci.

Nella ricerca di un centro di gravità permanente, che non facesse cambiare idea sulle cose e sulla gente, si può leggere la necessità intellettuale e spirituale di confrontarsi con una cultura altra, aperta alla condivisione dei saperi e tollerante nei confronti della diversità etnica e religiosa. Una necessità avvertita fortemente dai Gesuiti, che più di 400 anni fa partirono sulle orme di Marco Polo, alla volta dell'Impero Celeste, per sfuggire al bagno di sangue di un'Europa sconvolta dalle guerre e in piena crisi religiosa dopo lo scisma protestante.

 

La missione di Matteo Ricci - Da qui parte l'avventura del missionario Matteo Ricci da Macerata, che il suo "centro di gravità permanente" lo trovò proprio in Oriente. Entrato nel noviziato gesuita, studia retorica e filosofia, ma fin da subito dimostra grande talento per la matematica e l'astronomia. Nel 1582, all'età di trent'anni, si ritrova a Macau per approfondire la conoscenza della lingua cinese. Il suo scopo era inizialmente quello di portare il messaggio evangelico nella Cina imperiale, ma l'incontro con una cultura lontana chilometri e anni luce da quella occidentale lo spinse a favorire la comunione fra popoli attraverso la scienza.

 

 

Il lavoro propedeutico di un altro gesuita - Mai prima di allora un religioso aveva dato vita a un piano tanto ambizioso di scambio culturale tra continenti e, osiamo, mondi così diversi. Pur riconoscendo a Matteo Ricci un'operazione intellettuale inedita, bisogna ammettere che fu qualcun altro a spianargli la strada per entrare alla corte dei Ming. Nessun sarto di vestiti da bonzo, cioè da monaco buddista, che lo facesse apparire amico agli occhi di ospitanti non cristiani. No, perché a familiarizzare per primo con i cinesi fu un altro missionario gesuita, qualche anno prima: Michele Ruggieri. Grazie a lui l'Occidente scoprì Confucio e la prima traduzione delle sue opere e ottenne una conoscenza approfondita dell'Impero di Mezzo (attraverso un rapporto segreto e un atlante realizzati per l'imperatore Filippo II).

 

La spedizione evangelica di Ruggieri subì però una battuta d'arresto nel momento in cui sembrava che la Spagna dovesse dichiarare guerra alla Cina. I mandarini erano al corrente delle mire espansionistiche degli europei e i Gesuiti, di conseguenza, furono visti con profondo sospetto. In questo senso Ruggieri non fece un gran favore a Ricci. Se è vero che il cristianesimo era già penetrato in Cina sin dal VII secolo, con i Nestoriani, la sfida più grande per i predicatori occidentali non era entrare nell'Impero, ma restarci. Durante la dinastia Ming il nucleo cristiano era praticamente scomparso in una Cina molto distante da quella cosmopolita della dinastia mongola Yuan di tre secoli prima. Se a tutto questo si aggiunge che il mandarino di Ruggieri non era propriamente fluente, il quadro del "mezzo" fallimento della missione è completo.

 

Li Madou, un mandarino mancato vestito da bonzo - Da qui la decisione dei Gesuiti di inviare in Cina Matteo Ricci, il cui mandarino al contrario era buono al punto da renderlo "uno di loro". Solo lo strano accento, la statura decisamente sopra la media cinese, la barba fluente e il taglio degli occhi lasciavano intuire che Ricci non era un mandarino tra i mandarini. Ma Padre Matteo lavorò anche sul suo aspetto: col capo rasato e indossando una tunica grigia da bonzo buddista, il 15 settembre 1583 si prostrò assieme al confratello Ruggieri di fronte al prefetto Wang Pan. Implorò il permesso di risiedere nel Paese, per costruirvi una casa e un tempio dove onorare, nel pieno rispetto delle leggi locali, "il Signore del Cielo e della Terra". Dopo decenni di tentativi falliti, la prima missione cattolica nella Cina dei Ming aveva posto il primo fondamentale mattone per un'altra casa: quella in cui l'Occidente cristiano e l'Oriente perlopiù confuciano avrebbero dato luogo a scambi culturali destinati a riscrivere la storia del mondo.

 

Era davvero diventato "uno di loro". In una delle sue lettere si legge: "Essi scrissero molti ideogrammi, io li lessi una volta sola e riuscii poi a ripeterli tutti a memoria nell' ordine esatto in cui erano stati scritti. Rimasero tutti a bocca aperta, perché parve loro una grande impresa". Di cinese, oltre all'aspetto, gli mancava ormai solo il nome. E i suoi anfitrioni glielo fornirono: la "R" di Ricci divenne "Li", la M" di Matteo si trasformò in "Madou". Un onore accordato a nessuno prima di allora. Ma "Li Madou" non era una persona comune, e non a caso passò alla storia come il primo europeo a risiedere stabilmente per trent'anni nell'Impero Celeste, all'epoca della dinastia Ming.

 

 

 

Gesuita euclideo - Come il Vecchio Continente, anche la Cina era piena di contraddizioni. Il grande impero della carta, della bussola, della stampa e della polvere da sparo abbracciava un'idea dell'universo incredibilmente lontana dalla realtà. In più, sotto i Ming lo studio della matematica era proibito senza l'autorizzazione del re: la pena era la morte. Quest'aspetto non deve però ingannare il lettore: i cinesi possedevano conoscenze matematiche anche più complesse rispetto agli europei, ma esse si sviluppavano su un piano squisitamente pratico e non secondo una struttura rigorosamente deduttiva come la nostra. Ad esempio, il teorema di Pitagora nella Cina "avanti Ricci" veniva dimostrato in una maniera talmente contorta che il gesuita ne rimase addirittura turbato.

 

Ma Ricci era di un altro mondo, letteralmente. Dopo la confisca dei suoi libri, si presentò a corte con un caffettano di seta nera e il cilindro tipico dei mandarini. Non proprio il vestiario di un bonzo, ma riuscì comunque a entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming. Il suo cinese impeccabile, anche nella scrittura  degli ideogrammi, gli consentì fin da subito d'intavolare dotte discussioni filosofiche coi maestri confuciani. Finì per convincere tutti. Per primo tradusse in cinese gli "Elementi" di Euclide, fino ad allora sconosciuti a quella gente. Servendosi poi di una serie di globi in miniatura descrisse ai suoi ospiti il sistema astronomico tolemaico, dimostrando la sfericità della Terra e illustrando la rotazione dei corpi celesti, comete comprese. Non solo: illustrò le basi del neonato calendario gregoriano, che correggeva le evidentissime sfasature accumulate nei secoli dal sistema cinese.

 

L'astronomo erudito - Infine, col suo "Trattato sui Quattro Elementi", Ricci confutò le convinzioni cinesi sulla composizione dell'universo. La filosofia greca non aveva mai attecchito in Oriente: i quattro elementi base per gli occidentali (la terra, l'acqua, il fuoco e l'aria) non combaciavano con quelli orientali (l'acqua, la terra, il fuoco, il legno e il metallo). E tali sarebbero rimasti. Ma, grazie a una divulgazione scientifica mai sperimentata prima, i cinesi aprirono la loro mente collettiva a un sapere sorprendente. Li Madou ci sapeva fare davvero, comunicava in modo trascinante e utilizzava mezzi coinvolgenti, come il disegno di apprezzatissimi mappamondi murali.

 

Fratello del Grande Occidente - Nonostante il profondo rispetto che nutrirono per lui imperatori, notabili e gente comune, Ricci fu costretto più di una volta a fughe rocambolesche dall'Impero cinese. Su questo piano, le invidie e le maldicenze da parte di alti cortigiani ed eruditi si dimostrarono più occidentali che mai. Invecchiò in fretta, Li Madou. Nel maggio del 1610, all'età di 58 anni e coi capelli completamente bianchi, morì nella sua patria d'adozione. Ma anche nel suo ultimo viaggio fece la storia, ricevendo l'onore più grande per uno straniero in Cina: l'imperatore gli donò un appezzamento di terreno per la propria sepoltura. Sulla tomba, giunta intatta fino a noi all'interno del parco del Collegio Amministrativo di Pechino, campeggia una scritta: "A colui che è venuto attratto dalla giustizia ed all'autore di tanti libri. A Li Madou, fratello del Grande Occidente".

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