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Charlie Watts, per 57 anni "il migliore degli Stones"

Keith Richards l'adorava, e non era il solo. Con la sua scomparsa si rompe il mito dell'immortalità della band. Lui del gruppo era quello calmo, silente e lontano dai vizi pesanti.

Rolling Stones Charlie Watts
Getty

Keith Richards, heart of stone non troppo dedito alle piaggerie,  ha sempre adorato il suo Charlie Watts. Il più bravo, il migliore per lui e per gli altri Stones, il più cool. Talmente cool da portarlo a dire che un lontano giorno avrebbe voluto "essere seppellito accanto a lui". Per goderselo e probabilmente per non perdere quell'alchimia unica che - dietro la leadership e la potenza di Mick Jagger - ha tenuto in piedi i Rolling Stones per qualcosa come 57 anni. 

Ora, purtroppo, almeno un posto ci sarà. Charlie non è più. Ha perso il beat senza che se ne accorgesse nessuno, come da suo stile, probabilmente sul palco non è mai successo e - se è successo - era una delle piccole grandi sporcizie tecniche che hanno reso un imitatissimo e irraggiungibile marchio di fabbrica il sound dei Rolling Stones.

 

La band a cui si era unito ai limiti della riluttanza nel lontano 1963, quando era già un promettente grafico e un posato benché "cool" (appunto) giovane londinese molto appassionato al jazz, al rhythm & blues e ai tamburi che suonava nei club della capitale londinese. Mick, Keith e Brian Jones lo fregarono iniziando con quel genere, non mostrando al nuovo adepto i grilli di ambizione e ribellione che saltavano per le loro zazzerute teste. Ma a Charlie i compagni di cordata piacquero, specialmente Keith, rimasto per sempre l'amico, il complice a dispetto di vite che a un certo punto erano totalmente opposte: il batterista calmo, silente, inaccessibile, lontano dai vizi pesanti, che di rollingstoniano aveva giusto la faccia e il ritmo; e il chitarrista massima icona del modello autodistruttivo del rock a cavallo tra i '60 e '70.

 

Erano i tempi in cui Keith veniva definito un morto che camminava, "the most damaged human being", l'essere umano più danneggiato in circolazione. In molti scommettevano sulla morte sua, e conseguentemente dei Rolling Stones. Ne succedevano di ogni, ma i dischi uscivano, e bene o male le tournée continuavano, sempre più grandi. La band diventò molto più di una band, sia a livello simbolico che a quello economico. Musicalmente, una macchina sempre più oliata man mano che gli anni passavano. Dietro alla batteria, Watts. Con capelli sempre più bianchi, il volto sempre più da vecchietto. Ma quando cominciava il concerto, e attaccava Jumpin' Jack Flash, l'incantesimo era sempre lo stesso. Il riff di Keith, che attaccava al muro. E una rullata, inconfondibile, la scossa elettrica, sempre quella mano lì. Sui cui magari qualche purista dello strumento arricciava il nasino.

 

Per loro, e per tutti, c'era eventualmente una paroletta di Keith. Che faceva capire in tante interviste perché i tecnici potevano infilarsela in tasca: "Per me Charlie è il miglior batterista del mondo. Perché esiste una differenza tra chi rulla sempre sulla pista di decollo e chi veramente vola. Ringrazio Dio per essere stato il suo chitarrista". Ora è volato in un altro posto, le due bandiere Mick e Keith sono ancora lì e, anzi, si stanno preparando alla millesima tournèe, annunciata proprio mentre il loro supporto di sempre alzava bandiera bianca. Solo tre settimane fa, un comunicato di rinuncia, e di arrivederci. Che avrebbe dovuto farci capire subito che questo "missed beat" stavolta era una chiusa. Tipo quelle da concerto, tre colpi sul rullante, e Jagger che urla thank you. Ci uniamo. Grazie, Charlie.

Forse con la sua scomparsa, si rompe il mito dell'immortalità dei Rolling Stones. In realtà, augurando ancora lunghissima vita a Mick, Keith e Ronnie Wood, comincia proprio adesso. Con tanti pattern di batteria costanti e forti nella memoria, regolari e vitali come il battito di un cuore.

 

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