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Scuola, l'identikit del docente italiano: anziano e tra i meno pagati d'Europa

Fare il professore è un mestiere per cui ci vuole vocazione, soprattutto in Italia. Perché a livello economico le soddisfazioni non sono pari a quelle che si avrebbero in altri paesi d’Europa o del mondo 

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Sempre più prossimi alla pensione e poco pagati.

È questa la condizione dei docenti che quotidianamente salgono in cattedra per preparare i nostri studenti alle sfide del futuro. La classe docente italiana, infatti, è tra le più anziane del mondo: ben il 58% dei suoi componenti ha un’età superiore ai 50 anni. Nessuno nell’area OCSE, come mostra l'ultimo rapporto “Education at glance”, fa peggio di noi.

 

Svecchiare la classe docente? Una missione complicatissima

 

Come fa notare un ulteriore approfondimento del report effettuato da Skuola.net, dalla media globale dei prof over 50, fissata dall’OCSE al 35% del corpo insegnante, ci separa un abisso. Solo altre tre nazioni, in Europa, non sono poi così lontane: Lituania (54% di docenti “boomer”), Grecia (51%), Estonia (50%). In tutti gli altri casi sono meno della metà. E il confronto con i Paesi del Vecchio Continente assimilabili al nostro è spesso impietoso: in Francia gli insegnanti più vicini alla pensione sono il 30%, in Spagna il 35%, in Germania il 40%. La quota maggiore di giovani professori? La troviamo in Turchia: qui gli over 50 sono appena il 15%. Molto bene fanno pure Gran Bretagna (20%), Irlanda (21%) e Lussemburgo (22%).

 

E la situazione si aggrava ulteriormente in alcuni livelli scolastici. Perché se, ad esempio, ci soffermiamo sui percorsi liceali, la quota di docenti anziani in Italia sale al 61%, a fronte di una media OCSE del 39%. Facendo persino sembrare molto più giovane il corpo docente degli istituti tecnici e professionali, dove gli “over” sono il 59%; ma nell’area OCSE sono in media il 43%.

 

Gli stipendi dei prof non invogliano

 

Ci vuol dire che l’Italia è affetta da una carenza di ricambio generazionale. Le cause? Sono molteplici. Una delle principali è sicuramente legata agli stipendi bassi. Innanzitutto, i salari medi effettivi dei nostri insegnanti corrispondono a solo il 69% del totale degli stipendi di altri lavoratori con un livello di istruzione terziaria.

 

In termini assoluti, la retribuzione di un professore standard - in possesso della qualifica più diffusa e con oltre 15 anni di carriera alle spalle - si aggira attorno ai 44 mila dollari l’anno che, in funzione del potere di acquisto, si traducono in poco più di 32 mila euro; quando mediamente nell’area OCSE ci si posiziona oltre i 53 mila dollari. Un bel disincentivo a sposare questa strada professionale.

 

Le carriere, a un certo punto, si bloccano

 

Ma il vero motivo, sempre di carattere economico, per cui la nostra classe docente si sta invecchiando quasi inesorabilmente è soprattutto l’assenza di prospettive di crescita personale, specie a un certo punto della carriera. Come evidenzia un’analisi della Fondazione Agnelli, all’inizio la forbice retributiva a sfavore dei nostri insegnanti rispetto a quella dei colleghi di molti altri Paesi europei è, infatti, tutto sommato accettabile: la prima paga in Italia è di circa 25mila euro; in Francia, Portogallo, Finlandia rimane all’interno dei 30mila euro; solo la Germania fà il vuoto e si attesta oltre i 50mila euro.

 

La vera distanza, semmai, si crea dopo qualche anno di lavoro. Perché le retribuzioni dei docenti italiani sono poco dinamiche e dipendono quasi completamente dagli scatti di anzianità, con scarsissime progressioni di stipendio legate a maggiori responsabilità eventualmente assunte.

 

Una patologia che, sempre secondo Fondazione Agnelli, potrebbe essere anche il frutto del conteggio delle ore di lavoro previste dal contratto. In Italia, caso praticamente unico in Europa, vengono conteggiate, per un professore delle superiori, solo 18 ore alla settimana; a cui si aggiunge un forfait di altre 80 ore nel corso dell’anno (circa 2 alla settimana) per attività di programmazione, aggiornamento, ricevimento dei genitori. La preparazione delle lezioni e tante altre attività non strettamente di lezione, ma decisive per l’efficacia dell’insegnamento, non sono invece incluse nel contratto, al contrario di quasi tutti gli altri Paesi. Anche se poi, a conti fatti, gli insegnanti italiani dichiarano di lavorare circa 26 ore alla settimana, comunque meno della media europea, calcolata in 33 ore.

 

Non è un problema di spesa pubblica

 

Poche responsabilità, invece, pare vadano imputate agli investimenti fatti dallo Stato nel settore istruzione. Perché, apparentemente, potrebbe sembrare che questi siano scarsi, visto che nei Paesi OCSE presi nel loro complesso la spesa pubblica per la formazione - dalla scuola primaria al post diploma - nell’anno preso a riferimento (2020) è stata del 5,1% del PIL, mentre in Italia è stata solo del 4,2%. Poi, però, entrando nel dettaglio ci si accorge che nei livelli scolastici veri e propri - elementari, medie e superiori - siamo in linea col resto d’Europa e che è la pochezza dei finanziamenti pubblici a università e affini, appena lo 0,3% del PIL, a trainare in basso il dato.

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