Nella terra di Sua Maestà chi non raggiunge lo standard nazionale non ottiene il titolo. Due sistemi diversi con una differenza sostanziale: da noi ci si diploma comunque, mentre in Inghilterra bisogna colmare le lacune per poter arrivare al traguardo
© Ansa
L’Italia è quel Paese dove la promozione è (quasi) garantita, anche se la preparazione di base spesso vacilla. I numeri, infatti, dicono che uno studente italiano può ottenere il diploma anche senza aver raggiunto le competenze minime in italiano e matematica. Alla Maturità 2025 i bocciati sono stati appena lo 0,3% e i non ammessi alla fase finale sono stati solamente il 3,5%; eppure uno studente su due di quinta superiore non supera la soglia minima in una delle Prove INVALSI. Senza, dunque, “pagare” poi delle conseguenze in termini pratici.
Oltremanica le cose cambiano
In Inghilterra (e nel mondo anglosassone in generale), invece, un coetaneo che non dimostra di possedere quelle stesse abilità in inglese e matematica, non solo deve rinunciare al diploma ma è obbligato a ripetere la certificazione delle competenze finché non raggiunge il livello minimo stabilito a livello nazionale. Verificato attraverso i cosiddetti test SATs e GCSE; in pratica gli omologhi dei nostri INVALSI.
Una condizione tutt’altro che marginale. Secondo gli ultimi dati, circa uno studente britannico su tre non possiede ancora le competenze di base (inglese e matematica) necessarie per proseguire il proprio percorso formativo o professionale. In Inghilterra, infatti, chi resta indietro si trova tagliato fuori non solo dall’università, ma anche da buona parte dei corsi di formazione post-scolastica e delle opportunità lavorative.
Una differenza che, come evidenzia un approfondimento del portale Skuola.net, racconta molto bene le differenze tra i due sistemi scolastici - quello italiano e quello del Regno Unito - che si fondano su filosofie educative profondamente diverse.
Le differenze tra i due sistemi sono evidenti
Entrambi utilizzano strumenti di valutazione simili nella forma, ma differenti nella sostanza: ciò che cambia è il peso che questi hanno nel percorso scolastico degli studenti e le conseguenze che producono.
Già a partire dalla scuola primaria, il grado di preparazione viene misurato in modo diverso, in base agli obiettivi e alla funzione attribuita alle prove. Da un lato ci sono le Prove INVALSI e l’esame di Maturità, che nel nostro Paese viaggiano su binari paralleli, senza mai incrociarsi: le prime non influenzano la carriera scolastica né decidono la promozione, e oggi rappresentano lo strumento più efficace per fotografare il reale livello di competenze degli studenti italiani, ma è dal secondo che dipende gran parte del futuro percorso formativo e professionale.
Come funzionano i test SAT e GCSE
Dall’altro lato, come anticipato, nel sistema britannico esistono due tappe fondamentali di valutazione: i SATs e i GCSE. I primi - acronimo di Statutory Assessment Tests - vengono svolti nelle scuole primarie (intorno agli 11 anni) e servono a misurare le competenze di base in inglese e matematica prima del passaggio alla scuola secondaria.
Allo stesso modo delle INVALSI, non determinano la promozione o la bocciatura, ma forniscono un quadro chiaro del livello di preparazione di ogni studente e costituiscono un punto di riferimento nazionale per monitorare la qualità dell’insegnamento.
I GCSE (General Certificate of Secondary Education), invece, rappresentano un vero e proprio spartiacque del percorso scolastico. Si tratta degli esami nazionali sostenuti a 16 anni, che certificano le conoscenze raggiunte in inglese e matematica - materie obbligatorie - e in altre discipline opzionali.
L'articolazione dei livelli di studio fa molto
Prima di tutto, però, vanno sottolineate le principali differenze tra i due sistemi, che risiedono nella struttura dei cicli di studio e nel peso attribuito alle prove di valutazione. In Inghilterra, infatti, i SATs vengono somministrati solo nella scuola primaria e servono a verificare che gli studenti abbiano acquisito le competenze di base in inglese e matematica prima del passaggio alla scuola secondaria.
Da quel momento in poi, ogni istituto gestisce in autonomia le proprie verifiche interne e la valutazione del progresso degli studenti, all’interno di un sistema che, già dai 14 anni, inizia a diventare più settorializzato e orientato alla specializzazione.
A partire dai 16 anni, età che coincide con il termine dell’obbligo scolastico e con la fine della scuola secondaria, ogni studente può scegliere tra diversi percorsi - accademici o professionali - in base ai propri interessi e obiettivi.
Un vero e proprio filtraggio
È a questo punto che entrano in gioco i GCSE (General Certificate of Secondary Education), che - in assenza di altri strumenti di rilevazione - diventano di fatto il principale indicatore nazionale delle competenze raggiunte nella scuola secondaria e, per conformazione del sistema britannico, l’ultimo vero “checkpoint” del livello di preparazione di ragazze e ragazzi prima dell’ingresso nel mondo della formazione avanzata o del lavoro.
Non equivalgono a un vero e proprio diploma, che - come in Italia - si consegue solo a 18 anni. Si tratta, piuttosto, di test standardizzati su scala nazionale, pensati per misurare in modo uniforme le competenze acquisite dagli studenti al termine della scuola secondaria di primo grado.
Solo chi ottiene almeno il grado 4 (su una scala da 1 a 9) può considerarsi “promosso” e proseguire senza ostacoli. Chi invece non raggiunge la soglia minima contrae un debito formativo che dovrà colmare nei due anni successivi.
Non si tratta quindi di uno “sbarramento” definitivo: chi fallisce i GCSE può comunque proseguire nei percorsi di post-secondary school (16-18 anni), a condizione di recuperare le competenze mancanti entro la fine del ciclo. In caso contrario, non potrà ottenere il diploma né iscriversi all’università.
È il sistema del cosiddetto “resit”, che consente di sostenere nuovamente gli esami fino al conseguimento della certificazione delle competenze. Un meccanismo recentemente tornato al centro del dibattito pubblico nel Regno Unito, perché sempre più esperti lo considerano inefficace e potenzialmente controproducente nel lungo periodo: molti studenti, pur ripetendo le prove, continuano a non raggiungere gli standard richiesti.
La carenza di competenze non è una prerogativa solo nostra
Le ultime rilevazioni lo confermano: oggi, il 30,4% degli studenti britannici non ha ancora raggiunto le competenze minime in inglese e il 29,1% in matematica, le due materie chiave che accompagnano l’intero percorso scolastico fin dalle prove SATs. E secondo molti docenti, le lacune emerse già nei SATs spesso non vengono colmate durante la secondaria, rendendo poi inevitabili gli insuccessi alle prove finali.
E in Italia? Avviene più o meno lo stesso. Secondo gli ultimi dati, la media nazionale mostra che il 54% degli studenti delle classi seconde della scuola secondaria di secondo grado raggiunge il livello minimo in matematica e il 62% in italiano. Ma il trend peggiora drasticamente nelle classi quinte: al termine del percorso scolastico, le percentuali scendono al 49% in matematica e al 52% in italiano.
Una differenza sostanziale, però, c’è: nel Regno Unito gli studenti hanno due anni interi per recuperare le lacune e ottenere la certificazione minima entro i 18 anni; in Italia, invece, molti arrivano alla Maturità senza aver mai davvero consolidato le competenze di base.
Ciò avviene perché, come sappiamo, le Prove INVALSI - pur avendo una funzione analoga di rilevazione - non hanno alcun influsso sul percorso scolastico individuale: non incidono né sull’ottenimento del diploma né sull’accesso all’università.
E, paradossalmente, forse è anche un bene. Se in Italia le INVALSI avessero lo stesso peso dei GCSE, una parte consistente degli studenti si troverebbe costantemente in seria difficoltà.