Ha due facce: fa ammalare, ma protegge
Larma per combattere il morbo di Alzheimer potrebbe nascondersi nella medesima sostanza che scatena la malattia, ossia la beta-proteina che aggregandosi sotto forma di particolari placche, crea dei depositi che il fisico non è in grado di smaltire e che uccidono i neuroni. Una forma mutata di questa stessa beta-proteina, identificata grazie a uno studio tutto italiano e pubblicato su Science, può invece rappresentare uno scudo contro la stessa malattia. Questa proteina potrà essere in futuro essere trasformata in farmaco per bloccare sul nascere l'Alzheimer in tutte le sue forme, compresa quella familiare che attacca il cervello anche in giovane età, in alcuni casi già a partire dai 30-40 anni.
Il morbo di Alzheimer colpisce oggi circa mezzo milione di persone in Italia, 6 milioni in Europa e 5 milioni negli Stati Uniti: si tratta di numeri importanti, destinati a raddoppiare entro il 2050 a causa dell'invecchiamento della popolazione. La speranza concreta di unarma efficace contro la malattia arriva da una ricerca guidata dagli scienziati della Fondazione Istituto neurologico Carlo Besta e dell'Istituto farmacologico Mario Negri di Milano, con la collaborazione di colleghi dell'università degli Studi meneghina, del Centro Sant'Ambrogio-Fatebenefratelli di Cernusco sul Naviglio e del Nathan Kline Institute di Orangeburg (New York, Usa).
Come spiega il direttore del Dipartimento di malattie neurodegenerative del Besta, Fabrizio Tagliavini, la scoperta è arrivata da un colpo di intuito, che ha spinto gli studiosi ad approfondire il particolare caso di un paziente 36enne colpito da una forma precoce ed aggressiva di Alzheimer senza avere apparentemente alcuna familiarità per la malattia. Il team milanese ha scoperto in questo modo una nuova variante di beta-proteina mutata: se questa sostanza è presente in doppia copia, cioè è codificata da tutti e due gli alleli del gene corrispondente, scatena l'Alzheimer in forma grave, ma si dimostra protettiva se presente in copia singola. In questo caso, precisa Tagliavini, "la beta-proteina mutata si lega a quella normale e blocca lo sviluppo della malattia. Si tratta di un comportamento biologico sorprendente, in base al quale viene impedita la produzione delle placche killer delle cellule nervose. In questo modo si apre una nuova prospettiva terapeutica sia per le forme genetiche (3%) che per quelle sporadiche e non familiari, (97%) di Alzheimer.
Nel paziente 36enne gli esperti hanno eseguito alcune indagini genetiche dalle quali è stata individuata la nuova mutazione presente in omozigosi, ossia in coppia, su tutti e due gli alleli del gene reponsabile. "Riproducendo in laboratorio la nuova beta-proteina individuata, abbiamo visto che si trattava di una mutazione molto aggressiva spiega Tagliavini - e allora ci siamo chiesti perché non si fossero ammalati anche quei parenti del nostro giovane paziente che presentavano la mutazione in eterozigosi (cioè in un solo allele)". In effetti ricorda Tagliavini, "per tutte le mutazioni note prima d'ora bastava che l'alterazione fosse presente su un singolo allele del gene per scatenare l'Alzheimer in forma grave". Tra i componenti della famiglia del giovane malato il team milanese ha scoperto "molti membri eterozigoti, eppure perfettamente sani". compresa un'anziana signora arrivata alle soglie dei 90 anni con una memoria di ferro.
Tagliavini e colleghi hanno quindi provato a "mettere insieme in provetta la beta-proteina normale e quella mutata", notando che "l'interazione blocca la 'cascata amiloide' chiave nella malattia". In altre parole, la beta-proteina mutata impedisce a quella normale di cambiare forma e di aggregarsi formando la placca amiloide. La marcia dell'Alzheimer viene insomma arrestata. La speranza degli esperti è quella di tradurre la scoperta in medicinali da somministrare un giorno ai pazienti ad alto rischio di Alzheimer.
La strada verso la cura della malattia, per la quale ancora non esistono terapie risolutive, è però ancora lunga, avvertono gli scienziati milanesi. "Dobbiamo ancora comprendere a fondo i meccanismi molecolari che determinano l'effetto scudo della beta-proteina mutata, dice Mario Salmona, direttore del Dipartimento di biochimica molecolare e farmacologia dell'Istituto Mario Negri. Ma "con esperimenti specifici abbiamo dimostrato che la possibilità di sviluppare farmaci" basati su questa sostanza è reale. E poiché si confida in grossi progressi sul fronte della diagnosi precoce o pre-sintomatica dell'Alzheimer nel giro di 5 -10 anni - riprende Tagliavini - in futuro, se riuscissimo a mettere a punto questi nuovi medicinali, potremmo somministrarli alle persone ritenute ad alto rischio di malattia".