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L'ultimo libro di Germano Celant: "La storia delle (mie) mostre"

A un anno dalla scomparsa del critico d'arte, Silvana Editoriale, in collaborazione con Studio Celant, pubblica un volume dedicato a 34 delle grandi mostre da lui progettate e curate tra il 1967 e il 2018

 Germano Celant, libro, arte, The Story of (my) Exhibitions
Ufficio stampa

Il 27 settembre 1967, mentre gli studenti di tutt’Italia chiedevano riforme e libertà, a Genova una congiuntura fortunata di luogo, artisti e curatore, gettava i presupposti di una nuova tendenza dell’arte: l’Arte povera. Il luogo era la galleria La Bertesca, gli artisti convocati, quasi tutti nati negli anni trenta, erano Boetti, Fabro, Kounellis, Paolini, Pascali, Prini, Bignardi, Ceroli, Icaro, Mambor, Mattiacci, Tacchi e il curatore era Germano Celant. Genovese, classe 1940, appassionato di biliardo e compagno di scuola di Fabrizio De André, Celant dimostra da subito di avere la stoffa del combattente: “Avevamo la rabbia di farcela ma anche l’attenzione all’economia. È quando si arriva da terra che si diventa degli aggressivi”.

E la consacrazione internazionale non tarda ad arrivare, nel 1969 la rassegna di Arte Povera e Arte Concettuale «When attitudes become form» organizzata da Harald Szeemann presso la Kunsthalle di Berna lo porta dentro a quel sistema che di lì a poco avrebbe espugnato conquistando importanti posti di comando in Italia e in America.

 

In quell’occasione bernese, accanto a Io che prendo il sole di Boetti, Merz aveva piantato un igloo, mentre sulle scale Kounellis aveva disseminato sacchi di grano. Qualche pugno di cemento, stracci, rottami di ferro e di legno, plastica, rifiuti industriali, agli occhi di Celant non sono scarti, ma l’avvisaglia di una nuova estetica. Materiali non nobili, un’Arte povera (termine che Germano mutua dal teatro di Jerzy Grotowski) che, come lui stesso spiega, non è però solo una questione di medium, ma è “ridurre ai minimi termini”, è “impoverire i segni, per ridurli ai loro archetipi”, è un’arte “impegnata con la contingenza, con l’evento, con l’astorico, col presente”, attraverso “liberazioni formative e compositive, antisemantiche”.

 

In altre parole, già dagli inizi Celant avverte la necessità di collegare l’arte e l’artista a un progetto politico e sociale pensandoli come un’esperienza complessa e impossibile da scindere dall’ambiente che li circonda. E l’attenzione al rapporto tra arte e ambiente, inteso come luogo fisico (architettonico, urbanistico e di design), ma anche sociale, finanziario e culturale, sarà il focus di tutte le sue mostre e di quello che passerà alla storia come “metodo Celant”.

 

A un anno dalla sua scomparsa Silvana Editoriale, in collaborazione con Studio Celant, ha pubblicato un poderoso volume dedicato proprio a 34 delle grandi mostre da lui progettate e curate tra il 1967 e il 2018. In 562 pagine, oltre 300 immagini (di cui molte inedite) e attraverso una copiosa raccolta di documenti e testi critici, il libro, seguito dallo stesso Celant in tutte le fasi di lavorazione (almeno fino a quando il 29 aprile 2020 il covid non se l’è portato via), racconta la sua logica dell’esporre, la sua idea di ciò che una mostra deve e vuole essere: “Per cinquant’anni ho praticato diverse scritture: la teorica per la stesura saggi, l’editoriale per la costruzione di libri e di cataloghi, e infine l’espositiva [...]. The Story of (my) Exhibitions tenta di portare l’attenzione su quest’ultimo tipo di scrittura”.

 

Si parte ovviamente dall’Arte Povera per poi toccare le vicende internazionali con Conceptual art Arte povera Land art (1970) e per approdare nel 1976 alla grande mostra sul tema Ambiente/Arte, alla Biennale di Venezia, fino a perlustrare il Novecento con Identité italienne. L’art en Italie depuis 1959 (1981) al Centre Georges Pompidou di Parigi, Arte Italiana. Presenze 1900-1945 (1989) a Palazzo Grassi a Venezia, Italian Metamorphosis 1943-1968 (1994-95) al Guggenheim di New York.

 

La contaminazione tra linguaggi come arte e moda, in esposizioni come Il Tempo e la Moda (1996) alla Biennale di Firenze, arte e architettura, come in Arti & Architettura 1900-2000 (2004) a Genova, arte e musica, in Art or Sound (2014) alla Fondazione Prada di Venezia, o ancora arte e cibo, nella mostra Arts & Foods (2015) alla Triennale di Milano, sono la dimostrazione del suo credo: “Prima viene l’uomo poi il sistema, anticamente era così. Oggi è la società a produrre e l’uomo a consumare. Ognuno può criticare, violentare, demistificare e proporre riforme, deve rimanere però nel sistema, non gli è permesso essere libero”. Così inizia lo scritto Arte Povera. Appunti per una guerriglia (1967), uno dei testi più celebri della critica d’arte italiana del secondo Novecento.

 

The story of (my) exhibitions. Ediz. italiana e inglese
di Germano Celant
Silvana Editoriale
Pagine 560
€ 70

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