Una versione della leggenda di Ercole e Onfale e una Maddalena di cui fino ad oggi si sapeva ancora poco sono tornate ad essere ammirate dal mondo
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Sono le 18:08 del 4 agosto 2020 quando nel porto di Beirut si materializza l'inferno in Terra. Le circa 2750 tonnellate di nitrato d'ammonio stipate nel capannone numero 12, assieme a 15 tonnellate di fuochi d’artificio, kerosene e acido cloridrico, provocano inevitabilmente una delle più grandi esplosioni non nucleari della storia umana. A fungere da innesco un incendio divampato a pochi metri di distanza e sulle cui cause, cinque anni dopo, ancora ci si interroga. Una delle ipotesi è che un gruppo di saldatori inviato dal governo per riparare l’hangar abbia accidentalmente causato il disastro con qualche scintilla. Ciò su cui non ci sono dubbi sono invece le conseguenze tragiche di un tale incidente: l'onda d'urto è stata spaventosa ed è arrivata a danneggiare pesantemente 50.000 abitazioni, 178 scuole e 9 ospedali. Il bilancio finale parlerà di 220 vittime, 6500 feriti e 300mila sfollati.
Un'apocalisse che lascia un cratere di 140 metri di diametro nel punto esatto in cui c’era il capannone n.12 e che ha provocato 6 miliardi di dollari di danni. A venire danneggiato pesantemente in questo scenario quasi di guerra c'è anche il celebre Palazzo Sursock, dimora della famiglia libanese che ha dato il nome al più grande museo d'arte della città. Yvonne Sursock Cochrane, l'anziana erede che ancora viveva nella villa attorniata dai capolavori presenti nella collezione privata dei mecenati, muore nell'esplosione attorniata da quell'arte per cui aveva vissuto. Lei non riesce a sopravvivere mentre quelle opere d'arte, per quanto messe male, in qualche modo si salvano. Studiosi d'arte e ristrutturatori si barcamenano tra le macerie di Palazzo Sursock e, un po' come i "monuments men" che si impegnarono a salvare i capolavori durante la Seconda Guerra Mondiale, provano a salvare tutta l'arte possibile da un contesto che sembra uscito da un conflitto bellico. A venire riesumate sono soprattutto due tele, praticamente sconosciute fino a quel momento ma che si scopriranno essere presto opera di Artemisia Gentileschi.
Nulla è stato semplice nella vita di Artemisia, pittrice che lottò per farsi riconoscere in un mondo come quello dell'arte del Seicento, in cui essere donna chiudeva tante se non tutte le porte. Ebbe un'esistenza arzigogolata, divisa tra Roma, Firenze, Venezia, l’Inghilterra e soprattutto Napoli, prima di venire pienamente riconosciuta e rivalutata. Oggi è l'artista forse più famosa del panorama mondiale, anche grazie alle sue figure femminili e a un modo di raccontare attraverso le immagini senza compromessi eppure c'è ancora molto da scoprire nel suo catalogo. Le sue opere, un po' come lei, hanno vissuto spesso traiettorie arzigogolate, passando per molteplici attribuzioni prima di venire apprezzate. In questo senso i quadri ritrovati a Beirut non fanno certo eccezione.
È difficile non rintracciare echi del capolavoro più celebre di Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, in Ercole e Onfale, la grande tela riesumata dopo l'esplosione. Non solo le dimensioni sono importanti ma c'è anche il ritorno al tema della rivalsa femminile, qui evocata nel riferimento alla storia dell'eroe delle sette fatiche sottomesso alla regina e amante Lidia. Secondo il mito, Ercole divenne schiavo come punizione per un omicidio e Gentileschi ne rimarca la condizione ritraendolo mentre fila la lana. È affascinante come il cuore del quadro sia proprio un ribaltamento di ruoli, con il possente semidio costretto in un compito percepito come da donna mentre Onfale indossa la pelle di leone appannaggio dei grandi eroi. Davide Gasparotto, curatore esperto di dipinti del Getty Museum (dove il dipinto è stato spedito per tentare un difficile restauro dopo l'esplosione) ne aveva parlato al New York Times nel 2022 come di uno dei lavori più ambiziosi di Gentileschi per dimensioni e complessità delle figure.
Complicato è stato anche il già citato restauro dell'opera, compiuto proprio presso i laboratori di restauro del Getty Museum dal restauratore e conservatore capo del museo Ulrich Birkmaier, con la collaborazione di Matteo Rossi Doria. Per riportare Ercole e Onfale all'antico splendore ci sono voluti due anni di lavoro indefesso. Birkmaier ne ha parlato come di uno dei "progetti più impegnativi ma anche più gratificanti" cui abbia mai partecipato. Non c'è stato solo da lavorare sui colori, provando a trovare la perfetta integrazione coi restauri precedenti: andavano ricostruite quasi per intero delle parti rovinate dal disastro. Birkmaier ha paragonato il suo operato a quello di qualcuno che si trova ad "assemblare un grande puzzle" non per caso.
Birkmaier è stato assieme al collega Gasperotto uno dei maggiori sostenitori dell'ipotesi (poi confutata) che l'opera fosse un Gentileschi. La prima attribuzione risaliva al 1996, quando a esprimersi fu lo storico dell’arte libanese Gregory Buchakjian ma il fatto che l'opera fosse stata fino a quel momento sostanzialmente nascosta al grande pubblico aveva fatto sorgere dubbi. Tutti fugati dopo il rinvenimento del quadro cinque anni fa e l'ulteriore conferma arrivata da una delle maggiori conoscitrici dell'opera dell'artista: Sheila Barker. È stata lei una delle voci più convinte nell'affermare poi che il quadro era sostanzialmente contemporaneo alla Maddalena conservata a Beirut, anche lei messa in salvo dopo il disastro. Il tema della Maria Maddalena nel momento della conversione è decisamente più comune rispetto a quelli evocati nell'altro quadro eppure, osservando la pennellata e l'elasticità dei movimenti dei personaggi, è facile notare una certa continuità quantomeno a livello tecnico. Quasi certamente quindi si può dire che in entrambi i casi si tratti di lavori del periodo napoletano della Gentileschi, uno dei più prolifici e apprezzati. Lo studioso Costantino D’Orazio si è spinto addirittura a considerare la Maddalena "Sursock " una delle prime opere portate a termine da Artemisia in città negli anni Trenta del Seicento, quelli in cui venne completato anche Ercole e Onfale. A testimoniare il passaggio di quest'ultimo capolavoro nella città partenopea c'è poi anche una ricevuta, che testimonia l'acquisto da parte della famiglia Sursock all'incirca un secolo fa da un mercante del luogo. L'opera era ovviamente ancora ai tempi senza autore e probabilmente, fino ad allora, era appartenuta per secoli alla nobile famiglia Spinelli, che non l'aveva tuttavia mai esposta al pubblico.
Oggi, fortunatamente, dopo tanti passaggi di mano e tanti pericoli corsi la storia è destinata a cambiare. Ercole e Onfale verrà esposta per circa tre mesi in una mostra dedicata alla pittrice in quel Getty Museum, che si è occupato di riportarla al suo massimo splendore, prima di venire trasferita al museo di Columbus, Ohio. Lì verrà finalmente ammirata come merita, sulla scia di quanto sta accadendo al suo quadro "gemello". Anche la Maddalena è infatti in tour e, dopo essere stata esposta a Milano, si trova in questi giorni nel complesso monumentale di Santa Chiara. È tornata insomma proprio in quella Napoli da dove era partita, come un Ulisse approdato finalmente nella sua Itaca, pronto a farsi riconoscere dopo tanto tempo lontano da casa.