televisione

La generazione di Fonzie...

Il telebestiario di Francesco Specchia

26 Ott 2005 - 18:50

Nella trepidante attesa delle logorroiche pause di Celentano, al Telebestiario viene offerto in pasto, nell’ordine: una signora Coriandoli che sbarca nell’Isola al posto di Costantino; Gigi Proietti dubitabondo sul suo Maresciallo Rocca 6 e Fabrizio Del Noce che grida di non aver mai sospettato “che i contenuti di Rock Politik fossero politici” (se si fosse chiamato “Rock Pederastik”o “Rock Squartamentik” o “Rock Stronzatik” , chissà cosa gli sarebbe venuto in mente…). Poca roba, insomma.

Sicché- il lettore perdoni- scivoleremo, da figli illegittimi degli anni 70-80, sulla china della nostalgia. Questo Telebestiario è dedicato alla mia generazione. La notizia è che il 30 ottobre Henry Franklin Winkler diverrà un augusto sessantenne, essendo nato a New York nel ’45 da genitori fuggiti al furore della Germania nazista. Ora, per i più giovani, il volto di Winkler alias Arthur- “Fonzie”-Fonzarelli- ( volto cristallizzato nei suoi vent’anni) è solo un faccione incastonato nell’abitacolo di un’auto fighetta nello spot-fotomontaggio della Citroen C3. Ma per la nostra generazione Fonzie, il teppista dal giubbotto di pelle, dal pollice retrattile e dal cuore di burro era qualcosa di più.

Oggi pensiamo che fare il Fonzie, in fondo è come scrivere poesia: cominci a vent’anni e a cinquanta di rendi conto che potevi insistere. Anche se non è, poi, vero del tutto. Perché Fonzie, era –se ci pensate- il proto Costantino, l’uomo dalle mille donne, il fancazzista maestoso. Era un po’ Pinocchio un po’ John Wayne: il ponte d’un vibratile illusione che partiva dal maccartismo americano (che non avevamo mai vissuto), s’innalzava sull’ultimo sussulto degli anni di piombo (che avevamo vissuto di sguincio) e raggiungeva le vergini di ferro di Inspiration Point, e gli hamburger di Arnold’s, e i cessi trasformati in santuari delle psicanalisi, e l’amicizia virile tra collegiali che arrossivano ad annusare il sesso (che avremmo voluto vivere): tutta roba spruzzata di ketchup e buoni sentimenti.

Tutta roba falsississima, ovviamente. L’avremmo scoperto dopo, in età postpuberale, che non bastava fare il bullo per non subire le angherie della vita; o che non era sufficiente cantare “We shall overcome” o “C’era un ragazzo” per evitare i conflitti sparsi come polline in un mondo d’api impazzite; o che non serviva affatto lo schioccar di dita per circondarsi di stangone morbide di forme e di sinapsi, con tutto il resto dell’ armamentario maschilista oggi in possesso soltanto di Brad Pitt e Vittorio Sgarbi. No. Happy Days –scoprimmo- era la fregnaccia suprema. E il rarefarsi dell’illusione fu un risveglio gelido.

Era come essersi addormentarsi nei campi freschi di trebbiatura della Milwaukee anni 50 tra Sottiletta Cunningham al primo bacio con Chachi, tra Ralph e Potsie e la Loggia del Leopardo di Howard Cunningham; ed essersi risvegliati nell’Italia che passava dagli anni di piombo a quelli di merda (come scriveva Giorgio Bocca), tra baci mafiosi e baci di Giuda e Logge segrete molto più ruggenti. C’è un’altra lettura della fenomenologia fonzarelliana. C’è che molti di noi, i maniaci del teppista cortese, i protosognatori che andavano a scuola col giubbino di pelle che strideva con gli occhialini a fondo di bottiglia e l’apparecchio ai denti; ecco, molti di noi, sognavano Fonzie, e si vergognavano di essere solo Richie Cunningham. Ci vergognavamo di galleggiare in una famigliola borghese da messa alla domenica mattina e pastarelle al pomeriggio; di ingobbirci sui libri; di avere le efelidi pure nell’anima e una sola morosa alla volta. Praticamente uno stormo di Richie Cunningham, la sfiga con gli incisivi separati, la zazzera rossa e le scarpe da tennis.

Fu duro da digerire, da ragazzini; una grana in più da digerire durante l’adolescenza. Ma ora, dopo trent’anni, i conti tornano. Fonzie-Winkler, s’è perso per strada, è un panciuto sessantenne aggrappato al suo mito; Ron Howard è calvo, ma è un premio Oscar, tra i registi di cinema più ricercati del mondo. Non capite la soddisfazione. Sappiamo che è parzialmente condivisa da un partito trasversale che spazia da Enrico Letta a Tiziano Ferro, a Walter Veltroni. Un amico -un po’ schierato, a dire il vero- ci dice sempre che fare il Fonzie è come fare il comunista: ci si passa in mezzo, ma poi si cresce. Però, nell’armadio, il giubbotto di pelle di quell’amico è sempre lì, rispettato dalle tarme e divorato dai ricordi.

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