Il telebestiario di Francesco Specchia
Nella trepidante attesa delle logorroiche pause di Celentano, al Telebestiario viene offerto in pasto, nellordine: una signora Coriandoli che sbarca nellIsola al posto di Costantino; Gigi Proietti dubitabondo sul suo Maresciallo Rocca 6 e Fabrizio Del Noce che grida di non aver mai sospettato che i contenuti di Rock Politik fossero politici (se si fosse chiamato Rock Pederastiko Rock Squartamentik o Rock Stronzatik , chissà cosa gli sarebbe venuto in mente ). Poca roba, insomma.
Sicché- il lettore perdoni- scivoleremo, da figli illegittimi degli anni 70-80, sulla china della nostalgia. Questo Telebestiario è dedicato alla mia generazione. La notizia è che il 30 ottobre Henry Franklin Winkler diverrà un augusto sessantenne, essendo nato a New York nel 45 da genitori fuggiti al furore della Germania nazista. Ora, per i più giovani, il volto di Winkler alias Arthur- Fonzie-Fonzarelli- ( volto cristallizzato nei suoi ventanni) è solo un faccione incastonato nellabitacolo di unauto fighetta nello spot-fotomontaggio della Citroen C3. Ma per la nostra generazione Fonzie, il teppista dal giubbotto di pelle, dal pollice retrattile e dal cuore di burro era qualcosa di più.
Oggi pensiamo che fare il Fonzie, in fondo è come scrivere poesia: cominci a ventanni e a cinquanta di rendi conto che potevi insistere. Anche se non è, poi, vero del tutto. Perché Fonzie, era se ci pensate- il proto Costantino, luomo dalle mille donne, il fancazzista maestoso. Era un po Pinocchio un po John Wayne: il ponte dun vibratile illusione che partiva dal maccartismo americano (che non avevamo mai vissuto), sinnalzava sullultimo sussulto degli anni di piombo (che avevamo vissuto di sguincio) e raggiungeva le vergini di ferro di Inspiration Point, e gli hamburger di Arnolds, e i cessi trasformati in santuari delle psicanalisi, e lamicizia virile tra collegiali che arrossivano ad annusare il sesso (che avremmo voluto vivere): tutta roba spruzzata di ketchup e buoni sentimenti.
Tutta roba falsississima, ovviamente. Lavremmo scoperto dopo, in età postpuberale, che non bastava fare il bullo per non subire le angherie della vita; o che non era sufficiente cantare We shall overcome o Cera un ragazzo per evitare i conflitti sparsi come polline in un mondo dapi impazzite; o che non serviva affatto lo schioccar di dita per circondarsi di stangone morbide di forme e di sinapsi, con tutto il resto dell armamentario maschilista oggi in possesso soltanto di Brad Pitt e Vittorio Sgarbi. No. Happy Days scoprimmo- era la fregnaccia suprema. E il rarefarsi dellillusione fu un risveglio gelido.
Era come essersi addormentarsi nei campi freschi di trebbiatura della Milwaukee anni 50 tra Sottiletta Cunningham al primo bacio con Chachi, tra Ralph e Potsie e la Loggia del Leopardo di Howard Cunningham; ed essersi risvegliati nellItalia che passava dagli anni di piombo a quelli di merda (come scriveva Giorgio Bocca), tra baci mafiosi e baci di Giuda e Logge segrete molto più ruggenti. Cè unaltra lettura della fenomenologia fonzarelliana. Cè che molti di noi, i maniaci del teppista cortese, i protosognatori che andavano a scuola col giubbino di pelle che strideva con gli occhialini a fondo di bottiglia e lapparecchio ai denti; ecco, molti di noi, sognavano Fonzie, e si vergognavano di essere solo Richie Cunningham. Ci vergognavamo di galleggiare in una famigliola borghese da messa alla domenica mattina e pastarelle al pomeriggio; di ingobbirci sui libri; di avere le efelidi pure nellanima e una sola morosa alla volta. Praticamente uno stormo di Richie Cunningham, la sfiga con gli incisivi separati, la zazzera rossa e le scarpe da tennis.
Fu duro da digerire, da ragazzini; una grana in più da digerire durante ladolescenza. Ma ora, dopo trentanni, i conti tornano. Fonzie-Winkler, sè perso per strada, è un panciuto sessantenne aggrappato al suo mito; Ron Howard è calvo, ma è un premio Oscar, tra i registi di cinema più ricercati del mondo. Non capite la soddisfazione. Sappiamo che è parzialmente condivisa da un partito trasversale che spazia da Enrico Letta a Tiziano Ferro, a Walter Veltroni. Un amico -un po schierato, a dire il vero- ci dice sempre che fare il Fonzie è come fare il comunista: ci si passa in mezzo, ma poi si cresce. Però, nellarmadio, il giubbotto di pelle di quellamico è sempre lì, rispettato dalle tarme e divorato dai ricordi.