L'artista inglese, che arriva in Italia per due date il 7 e l'8 giugno, parla del nuovo album "The Overview" e dell'evoluzione tecnologica
di Massimo Longoni© Ufficio stampa
Arriva a Milano il 7 giugno al teatro Arcimboldi, a Roma l'8 all'Auditorium Parco della Musica, Steven Wilson con il suo nuovo show imperniato sull'ultimo album "The Overview". L'ottavo lavoro solista del produttore, remixer, autore e compositore è un'opera di quarantadue minuti divisi in due lunghi brani "Objects Outlive Us" e "The Overview", ciascuno ispirato all'"effetto panoramico" sperimentato dagli astronauti che guardano la Terra dallo spazio. All'apparenza un ritorno al progressive più classico che potrebbe fare la gioia dei fan di vecchia data di Wilson, ma sotto la forma si nasconde un contenuto che in realtà va oltre quel genere musicale.
I due brani, estremamente ambiziosi, sono costituiti ciascuno da sezioni musicali distintive che fluiscono da una all'altra, suonando come pezzi unici e continui. Wilson aggiorna la classica tavolozza musicale "prog" per incorporare tutto, dall'elettronica scintillante al post-rock e oltre, trasportando il genere proprio nel cuore pulsante del panorama musicale attuale. Un lavoro estraneo a gran parte delle logiche discografiche odierne che rispetto alla traiettoria evolutiva della musica di Wilson negli ultimi anni traccia una deviazione importante e inaspettata. "Se lo avete trovato sorprendente ne sono molto felice - esordisce lui -. Per me è la cosa più importante. Ogni volta che faccio un nuovo disco cerco di lanciare una sfida non solo a me stesso ma anche a chi lo ascolterà".
Da dove è nata l'ispirazione per un disco come questo?
Quando ho finito "The Harmony Codex" (il disco precedente - ndr) non ero certo su cosa fare in seguito anche se sicuramente volevo fare qualcosa di diverso. Ho pensato sarebbe stato interessante collaborare con un filmaker, magari creare visual per un'installazione o una mostra. Così ho iniziato a incontrare persone di quel mondo. Una di queste era Alexander Milas, che ha un'organizzazione chiamata Space Rocks che si occupa di unire il mondo dell'astronomia e della scienza con i musicisti, e fa molte presentazioni in cui le famiglie possono ascoltare musica e gli astronauti parlare delle loro esperienze in spazio. E ho pensato di poter fare qualcosa insieme. Durante la conversazione mi ha detto se avevo sentito parlare dell'effetto "overview". Quando gli ho risposto di no mi ha spiegato che è un fenomeno che riguarda gli astronauti che vanno nello spazio per la prima volta: guardando il mondo da quella distanza realizzano quanto gli esseri umani siano piccoli e insignificanti e quanto possa esserlo la vita umana. A questa presa di coscienza alcune persone hanno una reazione molto positiva ma altre reagiscono molto male. Un'idea che mi ha subito affascinato e che ho pensato dovesse diventare il tema di un album.
Hai avuto subito chiaro come avresti voluto impostarlo?
Avevo il titolo e avevo il concept. E ho pensato da subito che sarebbe dovuto essere un unico flusso di musica. Nella mia idea non avrebbe avuto senso provare a costruirlo in dieci canzoni separate. Volevo che fosse una sorta di film da ascoltare così avevo chiaro che avrei realizzato questi due lunghi pezzi, come il primo e il secondo tempo di un film. Così è nato "The Overview".
Questo tipo di struttura è tipica della musica progressive più classica, ma allo stesso tempo a livello compositivo si sentono le diverse influenze della tua scrittura.
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Spero sia così. Quando faccio musica mi muovo in maniera molto intuitiva e senza grande consapevolezza. Non sto pensando a quello che sto facendo, compongo incanalando in modo naturale tutti i miei interessi, dall'ambient all'elettronica, dal metal al progressive, dal jazz al pop. E non cerco di filtrarli. Questo è il motivo perché non mi sento di appartenere a nessun genere musicale specifico. Credo di aver creato il mio universo all'interno del quale posso muovermi liberamente. Quando ero più giovane potevi cogliere tanto dei Pink Floyd, sentirai sempre qualcosa di Bowie e Kate Bush. Ma questo perché quegli artisti sono profondamente radicati nel mio dna. Ma il risultato credo sia semplicemente Steven Wilson, con la sua personalità.
Dal momento che sin dall'inizio hai avuto chiaro che non avresti dovuto comporre tanti singoli brani ma un'unica lunga composizione, le parti sono arrivate in ordine cronologico o le hai riordinate in un secondo tempo?
La gran parte dell'opera, direi quasi l'80%, è stata scritta in sequenza. Quasi come se mi fossi seduto a scrivere un romanzo e avessi iniziato dal primo capitolo con i personaggi e avessi lasciato che la storia si svolgesse attraverso i diversi capitoli. È un po' come se ogni pezzo di musica avesse suggerito quello successivo: costruisci una stanza e lì c'è una porta che ti conduce nella stanza successiva. Scrivere molti singoli brani per poi metterli insieme come un puzzle per me non avrebbe lo stesso senso di flusso naturale che si spera abbia la visione d'insieme.
Da tempo ormai si dibatte sulla questione "intelligenza artificiale", che molti vedono come un pericolo enorme, anche nell'ambito musicale. Qual è la tua posizione?
Un po' sono preoccupato ma allo stesso tempo sono combattuto. Una parte di me pensa che da molto tempo i musicisti hanno usato la tecnologia come aiuto per fare musica. Ci sono software per rendere intonati i cantanti, altri che fanno suonare i batteristi più a tempo. Per molti anni i rapper hanno rappato su loop preesistenti. C'è sempre stata una tecnologia che ha reso la musica più facile da realizzare.
Con l'Intelligenza artificiale però sembra essere andati oltre il semplice aiuto...
Sì, certo. Per la prima volta abbiamo la possibilità che la musica possa essere creata del tutto senza interventi umani. Ma se consideriamo l'arte come un riflesso dell'anima e della condizione umana, mi chiedo perché si dovrebbe ascoltare qualcosa che non ha alcun elemento umano? Forse una delle cose positive dell'Intelligenza artificiale è che costringerà gente creativa a esserlo ancora di più, per realizzare cose che non sarebbero possibili con l'Intelligenza artificiale. Per esempio non credo che l'Ai avrebbe mai potuto concepire "The Overview". L'Ai è molto efficace nel creare musica generica che obbedisce a un gran numero di regole. Ma per me la musica ha più valore quando le regole le trasgredisce ed è imprevedibile, come possono essere solo gli esseri umani.
Tu in realtà hai già fatto un piccolo esperimento utilizzandola...
Non per realizzare "The Overview" ma per una canzone di Natale che ho fatto qualche mese fa. Ho chiesto all'Intelligenza artificiale di aiutarmi con i testi ed è stato un esperimento davvero interessante, perché ha creato un sacco di testi: circa il 99% di questi erano orrendi, inutilizzabili, ma il punto è che ha creato così tanto materiale che sono stato in grado di esaminarlo e poter scegliere qua e là frasi e versi che mi sembravano buoni. Quindi alla fine il processo decisionale dell'uomo è ancora fondamentale. D'altronde credo che l'Intelligenza artificiale non scomparirà e, anzi, progredirà. Puoi far finta che non esista, ma per me è un atteggiamento stupido, meglio provare a pensare a come potrebbe diventare parte del tuo processo creativo.
La cosa forse più pericolosa è che andando avanti potremmo trovarci di fronte a musica composta dall'AI senza saperlo.
Sono d'accordo ma posso dirti che già in questo momento ci sono molti musicisti, probabilmente alcuni tra quelli che io e te ammiriamo, che usano Chat GPT. Non te lo dicono, ma la stanno usando in molti per scrivere testi, esattamente come in passato le persone cercavano ispirazione, quando addirittura non copiavano, da poesie, romanzi o dizionari. È ingenuo pensare che non lo facciano, perché è così. Ma sono d'accordo che sia una cosa piuttosto spaventosa non sapere quali siano i confini tra ciò che è stato creato dalla macchina e quello che è stato creato dall'artista.